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sabato 21 agosto 2021

Sul vento proteso a cavallo


Si è già potuto notare come lo spazio cittadino assuma nei Frammenti lirici reboriani un ruolo centrale, diventando il polo opposto al paesaggio montano <169, nonché, nella sua dimensione notturna, un luogo sinistro dai rumori assordanti, spesso emblema della mercificazione del vivere. Più in generale, se si considerano i Frammenti nella loro totalità, è possibile notare come sussista una interessante corrispondenza tra le descrizioni d’ambiente cittadine e l’idea di moderno che esse mirano a veicolare, in una sorta di legame profondo tra lo spazio fisico e le sensazioni emotive, le contraddizioni, le ansie e i dubbi tipici del mondo contemporaneo. Già si era notato, analizzando il frammento XLV, come l’io che camminava di notte lungo le vie gremite di botteghe lucenti cercasse di definire la propria identità in un difficile processo di incontro con l’alterità cittadina che lo spingeva a preferire le zone oscure in cui tali angoscianti domande erano messe a tacere. Ne derivava una sorta di distanza tra il soggetto e la realtà esterna che rendeva difficile il processo di identificazione con questa, in un conflitto vivo, continuamente mutevole e sottoposto a ridefinizioni. Ecco dunque che, se la città novecentesca diviene il luogo in cui l’io cerca di definirsi e comprendersi, questo risulta una figura sempre in tensione che, come ha osservato la critica, deve in continuazione misurarsi con un mondo variegato e in crescita. <170 La città diviene quindi, in primo luogo, il simbolo della modernità in cui l’uomo non può più seguire il ritmo cadenzato, stagionale, della vita di campagna, ma si trova a confrontarsi con uno spazio sempre più esteso, difficilmente delimitabile e quindi comprensibile. Ecco dunque che:
"Le città dei secoli passati, odiate o amate che fossero, erano entità ben definite, situate generalmente in posizioni strategiche sul territorio e rinchiuse all’interno di mura di cinta e fortificazioni. Quando tra l’Otto e il Novecento le città cominciano ad assumere il carattere di metropoli, esse costrinsero l’individuo a confrontarsi con un orizzonte che arretrava in continuazione e con uno spazio sempre più esteso. <171
L’uomo nel Novecento perde dunque i punti di riferimento: ciò che prima è circoscritto e definito secondo una struttura conosciuta adesso diviene ambiguo; non sussiste più un confine che possa segnare con esattezza l’ambiente urbano, questo si è espanso oltre le sue barriere, inglobando una parte della campagna. È ciò che accade nel frammento III nel quale il moto del temporale sembra procedere facilmente dalla città alla campagna, in una sorta di legame spaziale tra le due realtà che impedisce di delimitare con facilità il termine di quest’ultima. La sensazione che viene a crearsi è quella di una vasta spazialità sebbene il poeta mantenga ben distinte le due entità: quella cittadina e quella rurale. Si considerino i seguenti versi:
Dall’intensa nuvolaglia […]
piomba il turbine e scorrazza
sul vento proteso a cavallo
campi e ville, e dà battaglia;
ma quand’urta una città
si scardina in ogni maglia,
s’inombra come un’occhiaia,
e guizzi e suono e vento
tramuta in ansietà
d’affollate faccende in tormento:
e senza combattere ammazza
<172
Qui la contrapposizione tra campagna e città viene evidenziata dall’avversativa, che nota come il temporale personificato sia libero di “scorrazzare” nei vasti prati campagnoli mentre è costretto ad incanalarsi nelle strettoie cittadine, perdendo in un certo senso la libertà che prima possedeva nel movimento tra gli edifici. Sebbene l’immagine della città superi lo spazio limitante delle mura <173, in un’accezione moderna dello spazio, questa viene percepita come distinta dal mondo di campagna, dove la natura sembra integrarsi più facilmente, esprimendosi con libertà in tutte le sue manifestazioni. Ecco dunque che nella città il turbine si trova a dover sottostare alle anguste e strette vie degli edifici, a spazi più ristretti e non agevoli, che mal si adattano alla sua presenza. Si noti inoltre come il frammento faccia affiorare un differente ritmo interno per le due tipologie di spazio: nel primo caso il vento viene paragonato ad un cavallo al galoppo e il paesaggio è pervaso dunque da suoni scanditi, ameni nella loro ritmica cadenza; nel secondo caso, invece, i rumori generati dall’incontro con gli edifici portano ad un’incalzante ritmo che aumenta sempre più dando vita a frenetici e sovrapposti rumori. Come è stato infatti osservato dalla critica, nel Novecento:
"i ritmi cadenzati della campagna vengono rapidamente sostituiti dai ritmi dissonanti della città, dove il ruolo dell’io è caratterizzato dall’indeterminatezza, contro uno sfondo dinamico e sempre mobile" <174
In questa situazione l’io si trova dunque perso nella vertiginosa vita cittadina, di qui forse il tormento e l’ansietà di cui parla il soggetto negli ultimi versi.
[...] Ecco dunque che Rebora, in questo frammento, riesce ad identificare una delle essenze del contesto urbano moderno: il brulicare di persone che si muovono nelle vie sempre affaccendate nei più disparati lavori, intente ad eseguire con ansia le proprie mansioni. Analogamente l’immagine di una città moderna, caotica e allo stesso tempo fortemente massificata, viene presentata anche nel frammento XXXVI in cui l’autore descrive le figure degli studenti intenti a recarsi a scuola come il «gonzo pecorume/dei ragazzi di scuola» <175, i quali possiedono «palloncini sugli spaghi» e «oscilla/ dai corpi smilzi il vuoto delle teste». <176 Al di là del particolare sguardo critico nei confronti dello studente poco diligente, immagine che non è certamente prerogativa del Novecento, si può dire che qui Rebora sottolinei l’idea di una modernità che massifica, figurata nel prototipo del ragazzo che non riflette e si appresta a seguire per consuetudine le tendenze dei compagni. Analogamente anche nel frammento LXVIII l’autore parla di «genti della gran plebaglia» <177 che seguono l’Utile senza porre in primo piano i veri valori, in una concezione fortemente critica della vita massificata dedita soltanto al guadagno. Ecco dunque che la città, nel caos delle cose, diventa l’ambiente in cui l’io facilmente perde l’identità dato che fisicamente si eclissa nella confusione indistinta di questa. Tale processo può essere spiegato anche come una conseguenza del continuo mutamento del contesto urbano stesso, che spinge il soggetto a doversi adattare a situazioni e spazi nuovi impedendogli di fissarsi in una forma specifica. Già era stato notato, infatti, come i ritmi cittadini, dalla sostenuta velocità, riducessero l’uomo ad un individuo costretto a sottostare ad un ritmo incalzante, delirante, spesso ciclico ed uguale a se stesso.
169 Sull’immagine della città come «polo negativo, distante dall’idea» si veda Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Rebora, cit., p. 42.
170 Laura Incalcaterra Mcloughlin, Spazio e spazialità poetica, Leicester, Trobadour Publishing, 2005, p. 17.
171 Ivi, p. 19
172 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 97.
173 Cfr. Laura Incalcaterra McLoughlin, Spazio e Spazialità poetica, cit., p. 19.
174 Ivi, p. 22.
175 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 428.
176 Ibidem.
177 Ivi, p. 751.

Anna Tieppo, “Ad ogni poesia fare il quadro”: figurazioni del paesaggio naturale e urbano nei «Frammenti lirici» di Rebora, nei «Canti orfici» di Campana, in «Pianissimo» di Sbarbaro, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2015/2016

giovedì 19 novembre 2020

Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio

Ennio Morlotti, Francesco Biamonti e Joffre Truzzi nel 1960 davanti all'atelier di Cezanne - Fonte: Joffre Truzzi

“Il vento largo è un vento che non soffia mai nella stessa direzione e di conseguenza disorienta molto….E’ come il vento della vita che ti sospinge prima da una parte , poi da un’altra…” Francesco Biamonti

“Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio”. Come fossero lì ad aspettare il loro lettore nella prima pagina di “Vento largo” appaiono queste parole, quasi volessero, da subito, introdurre e portare quel loro lettore dentro quel silenzio. E’ un istintivo pudore quello che si prova verso quelle parole, come se esse invitassero ad abbandonare la smania di dire e inducessero a ritirarsi in quel silenzio, rispettosi della sua intimità e ammirati dalla sua grandezza. Perché nell’intimità e nella grandezza di quel silenzio è la misura di “Vento largo”. Una misura in cui convivono quell’ intimità fatta di accenni sommessi e di intermittenze con se stessi e quella grandezza fatta di immersioni negli spazi e di sguardi che abbracciano vastità, le quali nel silenzio e del silenzio si nutrono.

Come ebbe a dire Calvino dell’ ”Angelo di Avrigue”, che fu il primo dei romanzi di Biamonti il quale, secondo Calvino, era “fatto soprattutto di cose non dette e di silenzi” anche di “Vento largo” che fu il secondo dei romanzi di Biamonti si può dire lo stesso. Perché l’arte di Biamonti sta proprio in quei silenzi eloquenti più delle parole con cui egli evoca l’interiorità delle cose e degli uomini e il mutevole succedersi che nei luoghi in cui quegli uomini vivono hanno l’aria, il cielo, la terra e il mare. Biamonti dialoga e fa dialogare i suoi personaggi come se egli, se essi, fossero in una continua e muta contemplazione e al tempo stesso interazione con ciò che vi è dentro e con ciò che vi è fuori di loro. “I personaggi scambiano frasi brevi, dialoghi enigmatici e sospesi – formule che evocano i ritmi antichi della vita e rispondono allusivamente alle interrogazioni che li tormentano” (Jacqueline Risset - “Biamonti una voce fuori dal tempo che leggeva il presente” - ne “Il Corriere della Sera” del 17.12.2004)

Perché quei personaggi se pur profondamente radicati in quei luoghi che sono i luoghi di Biamonti, i luoghi di quell’estremo Ponente Ligure in cui egli visse e che narrò, non sono per questo immuni dal “vento della vita” che come “il vento largo… disorienta molto”. Se pur di quei luoghi ne amino la selvaggia bellezza e ad essi si aggrappino, sebbene essi siano inesorabilmente destinati all’estinzione, tuttavia ciò non li affranca da un’ inquietudine a cui sono destinati a non sfuggire. In Biamonti non vi sono angosciose e laceranti disperazioni ma non vi sono neanche facili speranze. La sua è una poetica dell’instabilità e dello spaesamento che rimanda ad un universo esistenziale che non ha consolazioni o verità in cui rifugiarsi. Vi è caso mai una segreta saggezza incline al distacco dalle cose proprio per proteggersi e stemperare quell’amarezza che i personaggi di Biamonti sperimentano.

A un certo punto Vari, il protagonista di “Vento largo” dice: “C’è chi si rintana e c’è chi fugge”. Ed è in queste duplici condizioni della separatezza che sono infatti i personaggi di “Vento largo”, mossi, in quel loro rintanarsi e in quel loro fuggire, verso una ricerca che è ricerca in se stessi e di se stessi, ma mossi anche da una forza che è la forza che si prova verso le persone e le cose che si amano. Il rintanarsi è il rintanarsi di Vari che “ultimo testimone di una vita che se ne andava” vive da solo in quello sperduto borgo di Aurno ormai abbandonato. E nonostante che tutto intorno a lui stia morendo egli non lascerà quella terra e quel luogo e resterà a vivere lì, incapace di andarsene.

E’ un radicamento affettivo il suo che parla di legami forti con un passato che è già Memoria e di cui Vari è parte. Ma è anche un bisogno di stare con se stessi che ha in sé l’intimità propria delle nature solitarie ed è insieme l’attaccamento ad una bellezza che ha in sé quel senso di grandezza di cui si diceva: Aurno era “luminosa per via dell’altura, delle rocce e del sole”. Il fuggire è il fuggire di Sabel di cui Vari è innamorato, una figura femminile di una bellezza enigmatica e tormentata che, a un certo punto, scompare come avvolta nel mistero preda, come ella sarà, dei suoi segreti e delle sue ombre. E Vari ne sentirà tutta l’assenza e proverà il vuoto dato dalla mancanza di quel sorriso dolente di Sabel che dava senso e significato alla sua vita. Egli la cercherà e l’attenderà con paziente ostinazione ma invano.

E se pure a noi ci verrà detto dove Sabel è, a cosa è intenta e cosa la tormenta, per Vari Sabel si farà Sogno, fatto di premuroso desiderio: “Purchè torni! – si ripeteva…Mi dirà lei cosa devo fare” e di tenue ricordo: “Gli veniva in mente che Sabel si metteva qualcosa sulle labbra, un velo, un lembo di lenzuolo e dormiva. Misterioso mantello”. Ma “Vento largo” è anche un romanzo sul senso della libertà e Vari che è il primo ad averlo quel senso di libertà sa che la libertà di restare o andare, di esserci o non esserci è troppo privata e grande per cercare di mutarla e quindi si adatterà a convivere con quell’assenza: “<<Ha sempre amato chi vive e muore nascosto, – pensava, – su lei non devo più indagare. C’è una grandezza in quel silenzio>>”.

“Vento largo” è una storia di solitudini nonostante che tutti in quella piccola comunità che orbita intorno a quei luoghi siano parte di un tessuto di reciproche e mutue attenzioni. Perché tutti, anche i personaggi di contorno, hanno un loro tasso di enigmaticità che resta insondato, un non risolto che ne fa chi un rintanato, chi un fuggitivo, un senso di mistero che li fa soli con se stessi. Ed è proprio questo senso di enigma della vita che Biamonti esplora e racconta e quel suo tipico stile con cui egli dice senza dire, rende ed esalta la profondità di quell’enigma.

Perché il linguaggio, la lingua, i toni, le atmosfere in Biamonti sono forma che si fa sostanza, hanno un’espressività e un timbro che crea senso e dà senso più di quanto ne abbiano l’intreccio narrativo e le vicende narrate, tanto che “Vento largo” è un romanzo che in sé non ha una fine. Biamonti ebbe a dire: “ Sto cercando di affrontare la realtà del nostro tempo, senza più consolazioni, soltanto facendo la musica delle parole stesse…Voglio andare nel cuore dell’uomo, nel suo inferno, musicalmente” (J. Risset cit.) Ed è attraverso questo orchestrare e far uscire i suoni delle parole che egli evoca le cose, proteso verso il loro ascolto e la trascrizione di quell’ascolto.

Ma come è noto Biamonti è anche uno scrittore di immagini e per immagini, di “romanzi – paesaggio” lo definì Calvino e anche “Vento largo” in questo senso lo è. Ma anche qui attingere al paesaggio rimanda ad altro e si fa stile. Il paesaggio non è una cornice ma ad esso Biamonti attinge per nutrire la sua visione e per rendere i paesaggi interiori delle cose. Il paesaggio in Biamonti è fisico e metafisico, è poesia ma è anche realtà, rivela metamorfosi e cambiamenti. In questo senso Biamonti non è solo un cantore della Memoria e del Sogno, ma è anche un lettore della Realtà delle cose, dei cambiamenti sia fisici che epocali e quelle sue descrizioni dei paesaggi, dei luoghi, delle vite lo testimoniano, così come queste sue parole che ne rivelano, in questo senso, tutte le sue profonde consapevolezze: “Nei miei romanzi la natura è metamorfica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato e il mondo è su un abisso” (J. Risset cit.).

Sergio Ciacio Biancheri, Francesco Biamonti

Ma in Biamonti resta comunque alta quella consapevolezza e capacità di sollevarsi sulle cose e coglierne la segreta grandezza al cui mistero abbandonarsi silenziosi, come nelle ultime righe di “Vento largo” che ci lasciano un’immagine forte e aerea di composta e calma pacatezza: “Veniva scuro, tornavano già i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.”

Il collezionista di letture

 

domenica 15 agosto 2010

Ferragosto con vento di mare


Dopo la pioggia di ieri, oggi sulla Riviera dei Fiori é arrivato, quasi puntuale, il vento, un vento di sud-ovest, che, quindi, spira su tutta la Costa Azzurra.



Mi vengono in mente tante immagini e tante situazioni.

Pensando alla vicina Provenza, un dicembre di diversi anni fa con una Marsiglia veramente flagellata: dal sagrato di Notre Dame de la Garde sembrava che l'isolotto d'If venisse, insieme a tutte le memorie del Conte di Montecristo, da un momento all'altro inghiottito dalla furia del mare. E per associazione d'idee penso ad un vento (dei venti) che ha (hanno) altre provenienze e che quasi sempre si accompagna (accompagnano) allo scorrere tumultuoso di torrenti e di fiumi montani, il vento (i venti) che spira (spirano) nelle Alpi di Bassa Provenza nelle pagine di Pierre Magnan, dense di omicidi gotici, di personaggi comunque indimenticabili anche perché quasi tutti avulsi dallo scorrere della storia, dei variopinti colori di cime, foreste, prati, rocce, forre, giardini segreti; della natura e di pietre, pregne di storia, insomma.


Nel Ponente Ligure quasi in ogni stagione, invece, la furia del vento spinge il mare a devastare litorali di difficile, anche per l'incuria dell'uomo, ripascimento, spesso con conseguenze devastanti per gli stabilimenti balneari e per le stesse opere di fabbrica delle passeggiate a mare. Sul piano letterario pagine sublimi sugli effetti cangianti, di luce, di colore, di forma, del vento sul nostro mare ha scritto un insigne autore di questa terra, Francesco Biamonti.


D'altronde é Ferragosto, per cui, forse, anche pochi, piccoli spunti possono essere sufficienti per successivi letture ed approfondimenti.