Pagine

Visualizzazione post con etichetta biamonti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta biamonti. Mostra tutti i post

venerdì 12 gennaio 2024

Maria Pia Pazielli trasferiva da Bordighera a Sanremo la sua "Piccola Libreria"

Bordighera (IM): una vista dalla Via dei Colli

Irene Brin - nel ricordo dell'allora bambina - scendeva bella, elegante ed altera. Si accompagnava alla zia della testimone, altrettanto dotata di fascino, nel vialetto della casa dei nonni, dalle parti della curva del Giro d'Argento della Via dei Colli di Bordighera: il secondo conflitto mondiale era appena terminato, la vita - soprattutto quella brillante - riprendeva, gli ufficiali alleati a quel ricevimento intendevano divertirsi. 

In quel periodo, e poco lontano, invece, si trascinava stanca per spirito di servizio, forse perché glielo l'aveva chiesto l'amico Beppe Porcheddu, Lina Meiffret, a fare da segretaria a Garigue, governatore britannico della zona. L'eroica patriota, già seviziata dai nazifascisti e scampata quasi per miracolo alla prigionia in Germania, di sicuro ancora sconvolta per la morte del fidanzato Renato Brunati, suo sodale di lotta, fucilato come ostaggio al Turchino, certo non immaginava che pochi mesi dopo un altro partigiano avrebbe in un suo memoriale - presente nell'archivio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia - cercato in modo maldestro di incrinarne l'immagine ("La stessa dichiarò un giorno ad un suo intimo confidente di essere stata in contatto con elementi segreti del Comintern"), con il risultato, sul piano storico, di accrescerne caso mai la figura di combattente antifascista. In ogni caso, Lina Meiffret di lì a breve avrebbe trovato il secondo - ed ultimo - grande amore della sua vita, lasciando per Roma questa Riviera, dove negli anni a venire sarebbe tornata sporadicamente per minimi contatti con la famiglia.

La figlia del professore Raffaello Monti fu, invece, l'ultima persona a vedere in Bordighera Giuseppe Porcheddu poco prima che scomparisse nel nulla.



Esiste una fotografia, scattata da Beppe Maiolino e che Giorgio Loreti sta cercando di rinvenire nella versione originale, che, pubblicata indubbiamente rimaneggiata in una vecchia rivista, attesta - più che altro per via di un misterioso (in quanto di mano ignota) appunto in qualche maniera da collegarsi a quell'immagine - la presenza a quella che sembra la giornata conclusiva del Premio "Cinque Bettole" di Bordighera del 1957 (quello vinto dallo scrittore Fulvio Tomizza) di un trio formidabile di donne, Elsa De Giorgi, a quella data ancora molto legata a Italo Calvino, Marise Ferro, scrittrice e moglie di Carlo Bo, Emilia De Palma, moglie del poeta Carlo Betocchi.

Nel 1958 Maria Pia Pazielli trasferiva da Bordighera a Sanremo la sua "Piccola Libreria": di sicuro non mancarono di frequentarla nella nuova sede Francesco Biamonti, Luciano De Giovanni, Carlo Betocchi.

Adriano Maini

lunedì 31 luglio 2023

Biamonti divenne amico di Ennio Morlotti


Il poco che l'autore ci ha lasciato dell'ultimo libro, testimonia un cambiamento, confermato dallo stesso Biamonti: «[…] potenzierò la trama, ma abbandonerò la natura come consolazione. Nei miei romanzi la natura va dalla vita alla morte, dalla morte alla vita, è completamente metaforica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato, il mondo è su un abisso. Però molti si consolavano con le mie descrizioni delle nuvole, del cielo, del mare. Ora non voglio più offrire questa consolazione voglio che diventi un ulteriore pungolo all'angoscia che investe tutta la nostra coscienza». <105
Il paesaggio che, per Biamonti fu sempre ragione di conforto, motivo di consolazione, nell'ultimo libro sparisce. Nelle poche pagine rimaste non accade a nessun personaggio di perdersi nella contemplazione della natura.
Nei quattro romanzi la natura è lo scenario e con le sue suggestioni domina intere pagine delle narrazioni.
Biamonti parla di paesi, strade, sentieri, rocce, mare, cielo, luce. Nel descrivere il paesaggio usa una prosa lirica, sintetica ed essenziale, sospesa sull'abisso, influenzata e sorretta dalla pittura, dalla poesia e dal legame con la terra, il mare, il cielo, eternamente presenti.
Durante un'intervista affermò: «Il cielo che si stinge nel mare e viceversa, le rocce che scompaiono, le cose polverizzate dalla luce rispondono sempre allo stesso progetto di rappresentare un'umanità che fugge, un mondo che si dilegua». <106 Lo scenario partecipa, così, alla narrazione. Accoglie in sé il mondo malato, morente abitato da un'umanità che fugge. Il paesaggio, anch'esso franante, è la sola consolazione che resta.
Nell'opera di alcuni pittori Biamonti trovò una soluzione, un'alternativa, una vicinanza di intenti. Amante dell'opera di De Stael e di Cézanne, divenne amico di Ennio Morlotti <107. Questa amicizia fu di grande importanza per entrambi gli artisti, innamorati del paesaggio ligure e dei suoi movimenti. Impressionati dagli scenari ne rimasero entrambi catturati.
Biamonti, raccontando di una passeggiata con l'amico pittore, disse: «Un giorno si passeggiava sul mare, c'era un tramonto ad occidente tutto fiammeggiante sull'acqua, rosso, molto rumoroso. Poi arrivati in fondo alla passeggiata a mare di Bordighera ci siamo tirati indietro a oriente. C'era un blu già pieno di tenebra con delle venature strane. Ha detto questo: “Ecco dipingerei questo <108 più questo silenzio, che la parte rumorosa del cielo”». <109
È evidente la somiglianza dei due artisti che, con strumenti diversi, espressero la loro formazione e il loro legame all'esistenzialismo. Questa formazione di Morlotti è confermata da Biamonti, che scrisse: "Nell'arte di Morlotti la soggettività individuale umana non cerca la fusione con l'assoluto, ma rappresenta il suo dramma in uno scenario ordinario e nei fenomeni sensibili porta sempre un'interiorità sostanziale. Si direbbe ch'essa proceda a cuore terrestre spezzato al di là della naturalità e dentro i confini del finito dell'esistenza. Gli oggetti dei quadri sono rappresentazioni esistenziali, il correlativo di una emozione profonda; tale correlativo tende a restringersi; v'è infatti nei quadri un'esistenzialità crescente, maggiore asprezza, anche se l'emozione non si affievolisce. (l'emozione si mostra come lato negativo del sentimento di unità e di alta felicità; come sentimento della contraddizione fenomelogica che consiste nell'abbandono, nella sospensione della personalità, senza perdita dell'indipendenza: contraddizione che costituisce l'essenza dell'eros, dove trova il suo riassorbimento eterno.) Tutta strutturata su angosce ed ossessioni, sparge i suoi stillicidi temporali su un fondo di finitudine la coscienza di Morlotti; mentre sempre in situazione, e non essendo statua o estasi, l'esistenza non si identifica, tranne nell'eros (solo forse parzialmente rappresentabile) né con sé stessa, né col mondo, ma sparge dentro le cose del mondo, i suoi segni di intelligibilità e di individualizzazione". <110
Come scrive Paolo Zublena: «La tesi di fondo di Biamonti riconosce, con piena ragione, in Morlotti una struttura di base cézanniana nella visione della natura come apertura all'essere e un tentativo di marca esistenzialista di sfida all'assurdo, lettura tra il freudiano (a livello dell'io e dell'es) e il fenomenologico eracliteo». <111
I due artisti, uniti dall'amicizia, ma soprattutto dai gusti artistici, crescono parallelamente e lavorano affascinati dal paesaggio e dalla sua forza interiore. Biamonti, scrittore, lavora con l'occhio di un pittore, come scrive Paolo Zublena: "Per Biamonti la sorgente dell'ossessione per il paesaggio è senz'altro la pittura, e - più ancora - la specificità percettiva dello sguardo pittorico. È d'altronde Biamonti stesso che enuncia a lettere chiarissime una tale istanza: «Posso dire che la visione di Cézanne, de De Stael e della pittura moderna, mi aiuta a rapportarmi velocemente con il paesaggio. Perché nel pittore c'è già tutto stilizzato. Spesso scrivendo mi dico, quando sono in una impasse, in un vicolo cieco e vedo che s'affastellano troppe parole e non si vede più niente: “Come vedrebbe Cézanne?”».
Si trova qui in ultimo detto a chiare lettere quello che traspariva dall'analisi dei testi: "Biamonti guarda il paesaggio attraverso la mediazione della pittura (di Cézanne, di De Stael, aggiungiamo pure di Morlotti). Il paesaggio della narrativa di Biamonti è un paesaggio dipinto, guardato con l'occhio e con il pennello di Cézanne. […] Abbiamo insomma dei forti indizi che Biamonti scomponga e «ritragga» in parole il paesaggio con l'occhio del pittore. Ma in che forme avviene questa - diciamo così -verbalizzazione dello sguardo? Principalmente attraverso la resa del movimento, che può avvenire in diverse modalità. In genere l'agente del movimento è la luce, lunare o più spesso solare, ciò che dimostra l'analogia con il modus visivo di un pittore, Cézanne o Morlotti in primo luogo". <112
Le sue descrizioni sono laconiche ma piene di passione per la terra, per il mare, la luce, le rocce dove ricerca un appiglio, un appoggio.
Nella sua opera, anche le cose vivono, partecipano, ascoltano, tacciono <113, si muovono. Come scrive Merleau-Ponty ne il visibile e l'invisibile: «Non siamo noi a percepire, è la cosa a percepirsi laggiù, - non siamo noi a parlare, è la verità a parlarsi in fondo alla parola - Divenire natura dell'uomo che è il divenire uomo della natura - il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto». <114
Il paesaggio è un personaggio «gremito di luce», una luce che vive ed agisce sulle cose, svelandone la vera condizione, l'autentica consistenza.
Come scrive Vittorio Coletti: "Nella narrativa degli ultimi anni, tra gli eredi liguri di Calvino, il paesaggio gioca un ruolo di primo piano in due autori come Nico Orengo e, soprattutto, Francesco Biamonti. Fin dall'Angelo di Avrigue, Biamonti ha affidato al paesaggio ligure la parte di un vero e proprio deuteragonista delle sue storie. È un paesaggio gremito di luce, abbagliato da colori intensi e scavato da sotterranee memorie letterarie, poetiche, narrative, persino trobadoriche. Questo paesaggio è dunque vivo, sente, partecipa, secondo un modulo che fu già di Pavese […] La torsione lirica si fa suggestionare anche da Montale. […] Il paesaggio sfrutta così la sua opposizione istituzionale al movimento temporale della narrazione e contrappone alla malattia del tempo le immobili solennità del suo resistere; la gravità cosmica del male è rivelata perciò proprio dalla penetrazione della temporalità nel recinto “arcaico” degli spazi: «C'è in ogni terra… il seme della morte»."
Per Biamonti il paesaggio è vivo, è ciò con cui i suoi protagonisti si confrontano costantemente e continuamente, è un «appoggio», un «appiglio» che resiste quando tutto frana. L'autore lo descrive e, con estremo lirismo, lo dipinge. Coglie i paesaggi nell'attimo in cui nascono, nell'istante in cui l'uomo vi pone lo sguardo. Con poche parole esprime l'impressione che la natura esercita su di lui. Talvolta si tratta di descrizioni sospese, spezzate dai dialoghi o dal silenzio, altre volte l'autore si dilunga, ma non si perde nel naturalismo, come Morlotti dà pennellate piene di materia con cui ghermisce la realtà. Ne descrive i rumori, le ombre, i colpi di luce e i silenzi. La solitudine dell'uomo è in questi silenzi e in questi colpi di luce. Si potrebbe pensare che nella pittura di Morlotti <115 stia la risposta ai silenzi di Biamonti e che le sue opere siano il sottofondo musicale alle opere del pittore. Indubbiamente vi è una profonda vicinanza tra i due artisti e le loro produzioni. Nei romanzi il paesaggio interagisce con i personaggi e suggestionandoli li induce a riflessioni, rievocazioni del passato, alla contemplazione silenziosa. In queste descrizioni l'autore tematizza il silenzio che è nel mondo, nel paesaggio come negli uomini.
Ecco alcuni esempi tratti dai testi:
"Il sole, l'azzurro diffuso e sospeso, i tronchi silenziosi… Gli venivano in mente i calzolai, le scarpe chiodate [P N 22].
- Che silenzio! - Lei disse.
- La Liguria è bella quando è silenziosa. [P N 26].
Uscirono e guardarono in silenzio, allineati come monaci. Il cielo, a oriente, s'andava espandendo. La valle non usciva ancora dal buio. Ma il paese a nord, su un crinale sottile, era tutto una tastiera. Luceva casa per casa. E lì, intorno a loro, sulla rupe di Beragna, la terra si muoveva. Comparivano ulivi intonati ai muri e muri intonati alle rocce. [P N 81].
L'alba, come una falena bianca si affacciava sulla terraferma. Rimbalzava su isole rocciose, decapitava qualche scoglio, nel porto vuoto sfiorava un peschereccio, con le sue tenebre argentate. Poi apparve un paese in una sorta di dolina discosta dalle rive.» [A M 85].
C'è in ogni terra, - pensava, - il seme della morte, si vede bene in piena luce…ci sono colpi di sole su terre appese. [A M 114].
Aùrno, sei case, aveva tre grandi scalinate di terrazze, fra le rocce, di buona terra, né troppo calcarea né troppo acida: un'argilla di medio impasto, che manteneva un'umidità senza ristagni. Una volta soltanto - quasi tre anni senza piovere - l'avevano vista gemere sulla vena senza sgorgare. Per pochi giorni. Era bastato un temporale sul Mercantur per farla di nuovo irrobustire. Alto, riparato a nord da una muraglia naturale, Aùrno era ventoso; ma i venti, che lo flagellavano, passavano sul mare che li mitigava; abbastanza lontano perché il vento depositasse per strada il salino che poteva bruciare. Di rado si vedeva il sale sui lentischi e sui rami d'ulivi. La strada carrozzabile non saliva da Luvaira ma molto più lontano, da Airole. Nelle sue strettoie, nei punti rocciosi, solo un motofurgone riusciva a passare. Lo usava solamente per portare giù il raccolto: rami di mimosa, sacchi d'olive. Se no scendeva a Luvaira a piedi. Le case, disabitate, andavano in rovina. Dorate dal silice ferroso, splendevano nella sera. Se Luvaira era in decadenza, Aùrno era morta. Luminosa per via dell'altura, delle rocce e del sole; ma ormai tenuta in mano dai «signori delle tenebre». Se ne andavano anche i segni cristiani: «madonnette» sbreccate e ròse, e croci, sui bricchi, inclinate dal vento. Gli ulivi, carichi di seccume, anziché folto argento, s'illuminavano di un viola scarno, che precedeva il buio della fina. Varì era l'ultimo testimone di una vita che se ne andava. [V L 11-12].
Adesso la luce era potente, a blocchi, e, più che tremare, sembrava rotolare sull'altopiano. Era una luce che divorava i suoi stessi riflessi e lasciava le cose nette: le rigide spighe dal color esiguo, un mandorlo dalla nera corteccia «Non ha le rughe degli ulivi, ma quasi!», un campo di grano. [V L 53].
Ripensò al mare, duro campo d'arenaria… [A A 9].
Si svegliò prima dell'alba, nella mattina rauca di brezza. Mentre prendeva un caffè emersero dall'oscurità il bosco di querce e l'uliveto. Un mondo vigoroso. Ma poi la piena luce ne rese visibile anche l'aspetto malato: l'ulivo con la lumaggine nera, il limone col cancro. [A A 19].
- In quelle solitudini, tra quei grandi venti monotoni… Posso immaginare cosa diventeresti. [A A p 47].
L'autore è presente in scena, investe di sue impressioni il protagonista ed i personaggi. Lui che ha passeggiato sulle vie dei passeur e che è cresciuto tra rocce ed ulivi, che conosce il mare, descrive le sue suggestioni, la sua contemplazione, i suoi silenzi davanti alla natura, i rumori ed i silenzi del paesaggio che gli vive intorno, con parole incisive ed essenziali, con descrizioni asciutte ma piene di lirismo. Fino alla fine, quando toglierà all'uomo ogni appiglio, e non saprà più su cosa appoggiarsi: «Adesso c'era silenzio. […] Adesso c'era silenzio e nulla su cui sperare»." <116
[NOTE]
105 Intervista di A. Viale, in “Il Secolo XIX” del 21 settembre 1999.
106 Intervista di F. Improta, in “La Gazzetta di San Biagio”.
107 Testimoniato in diverse occasioni. Ricordiamo: Intervista, in Paola Mallone, Il paesaggio è una compensazione. Itinerario a Biamonti. Con appendice di scritti dispersi, Genova, De Ferrari 2001, p. 50.
108 Ho ripreso l'intervista così come era scritta, probabilmente si tratta di un errore nella redazione o trascrizione dell'intervista e «questo» va eliminato.
109 Fulvio Panzeri, Francesco Biamonti, il mio amico Morlotti, “La provincia di Como”, 13 agosto 1998, p.26.
110 F. Biamonti, Ennio Morlotti, con commento iconografico di Renzo Modesti, Milano, 1972, Club amici dell'arte, pp. 7-14.
111 P. Zublena, Lo sguardo malinconico sullo spazio-evento. Biamonti, Morlotti e il paesaggio dipinto, cit, p 451.
112 P. Zublena, Lo sguardo malinconico sullo spazio-evento. Biamonti, Morlotti e il paesaggio dipinto, cit, p 451.
113 «Meglio che non mi metta a dialogare con la notte». [P N 17]. […] i tronchi silenziosi… [P N 22].
114 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano, 1999, p.202.
115 Eccetto l'ultima fase, da cui Biamonti ha preso le distanze, sia in F. Biamonti, Amo solo il vero, ma ormai il muro della natura è crollato, “Tuttolibri”, XVI, 758, 13 luglio 1991, p. 7; che nelle vesti di Leonardo, protagonista di Le parole la notte, che appare insofferente verso Eugenio, il pittore che, nel romanzo, ricorda Morlotti in P N 192.
116 F. Biamonti, Il Silenzio, Einaudi, Torino, 2003, p.4.
Coletta Venza, Le figure del silenzio e della reticenza nei romanzi di Francesco Biamonti, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2003-2004

martedì 3 agosto 2010

Al tempo delle jacarande in fiore

Pubblicata al momento della fioritura la foto di una bella jacaranda di Bordighera, ci fu, tra gli altri, un commento che merita, anche a distanza di qualche settimana, di essere riportato:
"Splendida la jacaranda in questo periodo di fioritura. Che strana la nostra Liguria, tanti insigni scrittori, tra cui Francesco Biamonti, niente hanno potuto contro la schiera di pessimi cementificatori."

La sequenza degli eventi è stata, invero, più articolata. Tra i primi commenti ci fu quello di un amico che riportava la notizia per cui a introdurre in provincia di Imperia le jacarande fosse stato il padre di Italo Calvino, insigne botanico. Non potei resistere alla tentazione di scrivere due righe in proposito, per sottolineare l'impegno culturale e civile di Calvino contro la speculazione edilizia. Me ne venne fuori un articolo che, apparendomi pretenzioso, andai subito a cancellare, non prima di avere suscitato le impressioni che più sopra ho riportato.

Potevo partire da un agave, da un pino marittimo, anche da un geranio. Certo, di importazione o di tradizione locale, anche un modesto vegetale desta nelle persone semplicemente dotate di buon senso sentimenti di rispetto per la natura ed il paesaggio.

Ho fatto bene a cancellare quel mio post. Quel commento, che lascio anonimo, era e rimane esaustivo: ogni mia altra considerazione sarebbe superflua.