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mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

venerdì 8 ottobre 2021

Circa le controverse azioni dei servizi statunitensi in Italia durante la guerra

William Donovan

L’OSS (Office of Strategic Services) era appunto l’organizzazione, come dice la sigla, dei servizi segreti americani (dalla quale sarebbe nata la CIA) con vari compiti di spionaggio, per effettuare distruzioni infiltrando esperti in esplosivi oltre le linee, aiutare i partigiani con danaro e con aviolanci di armi e munizioni, indirizzarli sugli obiettivi e coordinarne l’attività di guerriglia specialmente nelle retrovie del fronte, e per stabilire contatti con le strutture politiche clandestine.
L’idea era stata di un avvocato, William J. (Bill) Donovan, amico di Roosevelt che, approvandola - siamo nel dicembre del 1941, pochi giorni dopo Pearl Harbor - lo nominò, seduta stante, colonnello (e poco dopo generale di divisione).
Tompkins ne accenna nei suoi libri Una spia a Roma e L’altra Resistenza (editore Il Saggiatore) dicendo che gli americani, contrariamente agli inglesi, non si erano dotati sino a quel momento di un servizio efficiente di spionaggio, nonostante il riarmo del Giappone, l’espansione aggressiva in Asia, e la sua alleanza con la Germania nazista e l’Italia fascista rappresentassero un pericolo per la pace nel mondo e una minaccia per gli Stati Uniti.
Racconta poi diffusamente, con dovizia di particolari, le vicende che lo hanno visto protagonista della lotta di Liberazione, non solo per amore della libertà ma anche del nostro Paese.
Si tratta di narrazioni basate rigorosamente sui fatti accaduti, ma scritte con il piglio del romanziere, rendendo difficile interrompere, tanto appassionano, la lettura (e anche la rilettura) una volta cominciata.
[...] Quanto scrive, ad esempio, Donald Downes nella prefazione alla prima edizione di Una spia a Roma lascia davvero perplessi se non allibiti.
Downes non era uno qualunque. Consigliere di Roosevelt alla Casa Bianca, professore nell’università di Yale, era a capo del gruppo OSS aggregato al corpo di spedizione sbarcato a Salerno il 9 settembre 1943, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio. Si sarebbe dimesso dopo pochi giorni non approvando il sostegno degli Alleati a Vittorio Emanuele III e a Badoglio. Afferma tra l’altro: «In Peter Tompkins la mancanza di fiducia e di rispetto nei superiori immediati dell’OSS era giustificata dalla confusione, dall’inesperienza e dalla incompetenza degli ufficiali più alti dei servizi informativi che operavano presso il quartier generale delle forze alleate». Tra gli agenti reclutati - aggiunge - «c’erano scarti della Marina e del Dipartimento di Stato, playboys, rampolli cretini di famiglie ricche e politicamente importanti e così via. Peter lo sapeva benissimo ed è comprensibile la sua rabbia nel trovarsi a rischiare la vita per un’organizzazione incapace di trarre profitto dal suo sacrificio».
Un altro motivo che induce a riflettere sullo scarso rilievo dato dai dirigenti dell’OSS all’attività di Tompkins prima, durante e dopo, la missione compiuta a Roma, e sulla ostilità verso di lui mai venuta meno in tanti anni da parte del Pentagono e del Dipartimento di Stato, va ricercato nelle posizioni politiche che dividevano i membri dell’organizzazione spionistica e di appoggio ai partigiani. Occorre rifarsi anche alla complessa situazione di allora, ai rapporti degli Alleati (non concordi tra loro) nei confronti del governo italiano riformatosi a Brindisi dopo l’8 settembre, diventato “cobelligerante” dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (e pertanto non alla pari con le nazioni impegnate nel conflitto).
Basti dire che la Resistenza italiana aveva suscitato, sin dalle prime battaglie di militari e civili contro l’aggressione tedesca seguita all’armistizio - emblematica quella di Roma - la netta avversione di Vittorio Emanuele III (in certo modo “perdonato” e sostanzialmente sostenuto da Churchill) timoroso che il movimento popolare armato, diretto dai partiti politici in maggioranza contrari alla monarchia (sia per il tipo di regime sia per le complicità con il fascismo), segnasse la fine dell’istituzione e con essa il ruolo dei Savoia.
Questo timore, del resto più che fondato, spinge Badoglio ad inviare una circolare, primo destinatario il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che aveva costituito nella capitale il Centro Militare Clandestino. Nella circolare lo Stato Maggiore italiano dichiarava impossibile la guerriglia nel nostro Paese, soprattutto per ragioni orografiche, dando carattere restrittivo all’attività di opposizione ai nazifascisti, limitandola alla costituzione di servizi di spionaggio e, una volta giunti gli Alleati a liberare le località, a collaborare con loro per mantenere l’ordine pubblico.
Va subito detto che tali disposizioni vennero di fatto respinte dai militari che entrarono a far parte delle unità partigiane costituite sotto l’egida dei partiti, o a carattere autonomo.
Badoglio aveva però un altro obiettivo, una volta sconfessata inizialmente la Resistenza in quanto lotta di popolo: ricostituire le forze armate facendole partecipare alla guerra con la propria identità nazionale, inserite in quelle angloamericane.
Ci sarebbe riuscito con la formazione del CIL (Corpo Italiano di Liberazione), ma mentre lo progettava ecco entrare nel gioco, scompigliandolo, Peter Tompkins.
Questi, sbarcato a Salerno alla fine di settembre ’43 - dopo aver svolto un intenso lavoro di intelligence interrogando prigionieri italiani in Grecia, in Kenya, nell’Africa del Nord e reclutando per l’OSS italiani sicuramente antifascisti nei campi di concentramento in Algeria e tra i rifugiati fuggiti dall’Italia (come Velio Spano, arruolatosi in Tunisia) - si era incontrato con Raimondo Craveri proteso, anche per mandato di Ugo La Malfa, a costituire una organizzazione italiana con le medesime funzioni e finalità dell’OSS, alle dipendenze del comando americano. L’idea prese maggiore forza lasciando sperare che si potesse giungere alla costituzione di una consistente unità militare di italiani sotto il comando americano, indipendente dall’esercito nazionale (che Badoglio stava riorganizzando). Craveri, per avere credito presso gli Alleati, poteva contare su una personalità di primo piano, concordemente stimato, Benedetto Croce, di cui aveva sposato la figlia Elena. Con Croce, lui e Tompkins si incontrarono a Capri. Studiarono i particolari dell’operazione, individuarono il comandante dell’unità nel generale Pavone. Ma Badoglio, informato di tutto, l’ebbe vinta, col sostegno del governo inglese, facendo annullare l’impresa di Craveri e Tompkins sul nascere.
Anche se Donovan aveva incoraggiato l’iniziativa, i vertici dell’OSS ne denunciarono l’improvvisazione.
Secondo loro Tompkins era un battitore libero, poco incline a rispettare ordini e disciplina.
Tompkins non si dette per vinto. Ritornati al progetto originario, Craveri e Tompkins costituirono l’ORI (Organizzazione Resistenza Italiana), un’appendice dell’OSS composta da volontari italiani che opereranno sul terreno del nemico anche autonomamente ma sempre in stretto contatto con il comando dell’OSS o inseriti nelle missioni americane anche con funzioni di comando.
Tompkins ha raccontato nei suoi libri, come abbiamo scritto, gli episodi che segnarono l’avvio delle attività dell’OSS mettendo in rilievo le difficoltà incontrate con i capi dell’organizzazione, tacciandoli di ipocrisia, malafede e incapacità a capire il significato unitario del CLN che metteva al riparo la Resistenza italiana dalle divisioni che avevano insanguinato altrove i movimenti di guerriglia antinazista. In un convegno a Venezia (17-18 ottobre 1994) pronunciò contro di loro parole durissime, denunciandone l’ambiguità. Se da una parte - disse - combattevano il nemico utilizzando agenti sinceramente democratici, dall’altra - accusò - salvavano i fascisti della X MAS «con Valerio Borghese, per costituire poi, con loro, “Gladio”, per fare la guerra anticomunista e, con il generale Wolf, capo delle SS, salvare i nazisti in Germania. Perché avevano la trista idea che il comunismo staliniano si doveva combattere con il fascismo e il neofascismo e non con la saggia democrazia».
Quanto disse a Venezia Tompkins ci sollecita, come abbiamo scritto, a compiere nuove ricerche sui rapporti dei servizi segreti americani e quelli italiani sin dalla guerra di Liberazione, anche se la parte più inquietante ci porterebbe al lungo periodo successivo della “guerra fredda”, dello “stragismo”, delle collusioni di organi dello Stato - i “servizi deviati” - col terrorismo nero.
Per quanto riguarda l’OSS e la guerra di Liberazione - non essendo ancora l’OSS diventato CIA - non possiamo però farci fuorviare, nel giudizio complessivo, dalle critiche, benché legittime, rivolte a taluni dei suoi esponenti. Su ciò anche Tompkins era perfettamente d’accordo.
L’apporto dell’OSS alla guerra di Liberazione in Italia è stato di straordinaria importanza, il comportamento delle missioni il più delle volte eroico, sino all’estremo sacrificio, fossero i componenti cittadini americani o italiani (dell’ORI, o diversamente arruolati).
Questo sentimento di riconoscenza, condiviso da tutti partigiani non importa di quale colore, e dagli storici i più accreditati, si accompagna alla gratitudine che nonostante sia passato tanto tempo il popolo italiano conserva verso quello americano, indipendentemente dalle valutazioni sulla politica contingente della Casa Bianca, con la coscienza di essergli debitore, con le altre nazioni componenti le armate alleate, delle libertà democratiche.
Il servizio reso sul piano strategico alle operazioni militari alleate dall’OSS e il sostegno alle unità partigiane non possono essere sottovalutati a causa, come abbiamo scritto, di posizioni diverse all’interno dell’organizzazione tra chi, in sintonia con gli inglesi responsabili del SOE (Special Operations Executive), vedeva nel Partito Comunista Italiano e conseguentemente nelle brigate Garibaldi, un pericolo potenziale per la democrazia da instaurare in Europa a vittoria ottenuta, e chi, come Tompkins, anche senza aderire all’ideologia marxista e anzi essendone decisamente contrario, riteneva doveroso riconoscere sia al PCI che alle formazioni da questo dipendenti - “brigate Garibaldi”, GAP, SAP - e alle sue organizzazioni di massa - “Gruppi di Difesa della Donna”, “Fronte della Gioventù” - motivazioni prevalentemente patriottiche, con una forte, insopprimibile vocazione alla libertà, difficilmente conciliabile quindi con il disegno autoritario rappresentato dallo stalinismo.
Se le diatribe all’interno dell’OSS non portarono alle discriminazioni - che per buona parte della guerra partigiana, tranne un ripensamento nella fase finale, videro gli inglesi del SOE rifornire dal cielo di armi e munizioni preminentemente le unità degli “Autonomi”, di “Giustizia e Libertà”, i verdi e azzurri della Democrazia Cristiana, e in certa misura anche quelle socialiste, le “Matteotti”, lesinando se non rifiutando gli aiuti alle “Garibaldi” (ne fui testimone, capo di Stato Maggiore della Prima Divisione Garibaldi, in Piemonte) - lo si deve soprattutto allo spirito di giustizia e verità che ebbe il sopravvento sulle valutazioni ideologiche arbitrarie, e ciò principalmente per merito dei capi missione, americani e italiani (tra costoro vogliamo ricordare Piero Boni e Ennio Tassinari), i migliori interpreti della realtà anche politica “sul campo”.
Certamente Peter Tompkins ha sofferto personalmente di tale situazione contraddittoria, arbitrariamente imputato (con altri dell’OSS che avevano partecipato alla guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali) di filocomunismo, e perciò volutamente screditato a tal punto che un esponente di primo piano dell’OSS, Max Corvo - autore di un libro oltremodo documentato e suggestivo La campagna d’Italia dei servizi segreti americani. 1942-1945 (Libreria Editrice Goriziana) - dedica alla sua missione a Roma poche righe, dicendolo «intrappolato nella rete di intrighi e rivalità intestine del CLN» e attribuendo ad altri il merito dell’attività di spionaggio durante la battaglia per Roma seguita allo sbarco di Anzio, specialmente elogiando agenti dei servizi segreti italiani (SIM), facenti capo a “Scamp” (Vincent Scamporino), alcuni dei quali Tompkins sospettava di essere in contatto e combutta con i servizi segreti fascisti.
La verità sul peso strategico che ebbero le informazioni di Tompkins - assolvendo in modo davvero meritorio, oltre le aspettative, ai compiti per i quali era stato inviato segretamente a Roma alla vigilia dello sbarco di Anzio - ci viene da fonti inoppugnabili, oltre che dai documenti reperibili nell’Archivio di Stato Americano, NARA (National Archives and Records Administration): dalle testimonianze di personalità della Resistenza romana che collaborarono con lui, come Giuliano Vassalli, comandante delle brigate “Matteotti” nella Capitale, poi arrestato e rinchiuso in via Tasso, cui Tompkins dovette la vita avendo Vassalli resistito alla tortura senza rivelare dove si nascondeva il capo missione americano.
Vassalli, poi ministro di Grazia e Giustizia, Presidente della Corte Costituzionale, introducendo la seconda edizione del libro Una spia a Roma, riconosce «le straordinarie doti di coraggio, perspicacia, intelligenza, patriottismo di Peter Tompkins (…). Ai miei occhi ebbe il merito di non lasciarsi menomamente indurre ad una aprioristica diffidenza verso le forze politiche di sinistra, nutrita invece da alcuni ambienti del suo Paese e dalla stessa organizzazione di cui faceva parte…».
Vassalli (uno tra i principali promotori della fuga di Pertini, Saragat e altri da Regina Coeli il 24 gennaio ’44), prima dell’arresto, era a capo di una rete che forniva le informazioni a Tompkins per essere inviate al quartier generale alleato mediante una trasmittente spostata frequentemente da un luogo clandestino all’altro per renderne difficile l’individuazione. Un’altra rete era organizzata da Franco Malfatti, anche lui socialista, con l’aiuto di un medico, Lele Crespi, una terza da un ufficiale che si era appositamente arruolato nella polizia fascista, Maurizio Giglio, cui era affidata anche una trasmittente installata su un barcone in riva al Tevere. Giglio, catturato in seguito ad una delazione, la radio sequestrata e usata dai tedeschi per inviare false notizie agli angloamericani, morirà alle Ardeatine, Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Descrivere la battaglia per Roma sui due fronti del Garigliano e di Anzio per individuare il ruolo che vi ebbero i servizi di informazione alleati (tra questi non sufficientemente ricordato il gruppo di sabotaggio e raccolta di informazioni, la missione “Texas”, comandata da Alfredo Michelagnoli “Fred”, paracadutato in febbraio sui monti tra Lazio e Abruzzo) comporterebbe l’uso di uno spazio non consentito da una pubblicazione periodica come questa, per quanto dedicata anche agli approfondimenti storici.
Basterà dire che l’attesa spasmodica protrattasi dalla fine di gennaio ai primi di giugno ’44, la convinzione che la liberazione potesse avvenire da un momento all’altro, la pressione degli Alleati sulla Resistenza perché intensificasse le azioni impegnando quante più forze tedesche, altrimenti inviate sul fronte di Anzio, nella guerriglia cittadina (l’attacco militare dei GAP Centrali in via Rasella obbedì a tale esigenza e alle reiterate richieste angloamericane) sono elementi che, combinati tra loro, ci spiegano come da una parte, quella delle formazioni partigiane, venissero trascurate in quei momenti convulsi le norme che garantivano la clandestinità delle organizzazioni; dall’altra, quella nazifascista, si intensificassero le retate e soprattutto le infiltrazioni tra i partigiani di provocatori e spie.
Tanto da rendere difficile se non impossibile, distrutti quasi per intero i quadri dirigenti della Resistenza romana, o costretti ad abbandonare la città, organizzare l’insurrezione in concomitanza con l’arrivo degli Alleati. E ciò a complemento delle decisioni anche del CLN a seguito dei colloqui tra Pio XII e Karl Wolf (plenipotenziario di Himmler) per evitare che la battaglia finale per Roma, dalle conseguenze terrificanti, si svolgesse sin dentro le mura.
I documenti relativi all’ultima fase dei combattimenti seguiti allo sbarco di Anzio testimoniano numero, intensità, esiti delle azioni di sabotaggio dei partigiani lungo le vie di rifornimento in parallelo all’attività informativa. Impossibile, scrive più volte Tompkins - ed era solito ripetere queste parole, come abbiamo detto, nei discorsi pubblici - senza le donne, gli uomini, i ragazzi, molti dei quali caduti tra i due fuochi o fucilati dai tedeschi, che gli fornivano tempestivamente informazioni e dati perché artiglieria e aviazione degli Alleati colpissero gli obiettivi nemici, reparti in marcia e nei ridotti difensivi o accasermati, apprestamenti, depositi di munizioni e carburanti. E non solo quando l’offensiva alleata consentì la saldatura tra le truppe provenienti da Anzio con quelle dal fronte del Garigliano, ma prima, nei momenti più drammatici, quando la testa di ponte rischiò il fallimento, il corpo di spedizione l’annientamento, i superstiti di essere ributtati in mare.
Massimo Rendina, E il maggiore Tompkins sempre insieme ai partigiani, Patria Indipendente, n° 2,  febbraio 2007
 
Nel suo complesso, dunque, gli Alleati, e soprattutto gli inglesi, considerarono sempre come controparte legittima e affidabile la Monarchia e il Governo Badoglio, mentre si rifiutarono di vedere, almeno sino agli accordi del dicembre 1944, quali interlocutori politici il CLN e il suo rappresentante nell’Italia settentrionale, il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, a maggior ragione, ove si consideri che alcuni suoi membri quali, ad esempio, il socialista Sandro Pertini ritenevano che il CLNAI non dovesse assumersi la responsabilità dell’armistizio perché non aveva quella della guerra. Tale contrapposizione ideologica fu ben chiarita da Edgardo Sogno, figura eccentrica della Resistenza italiana, il quale collaborò con il SOE, consapevole del fatto che: "Gli Inglesi non ci rimproverano il fascismo, ci rimproverano di aver fatto la guerra. E in questo fatto della guerra sentono che la colpa è tutta nostra. Gli antifascisti considerano invece la guerra come una conseguenza del fascismo, rimproverano agli Inglesi di avere appoggiato il fascismo, quando loro l’hanno combattuto, e si sentono quindi in credito anche verso gli Inglesi".
A tal proposito, sintomatica di tale contraddizione appare una lettera del 13 settembre 1943 che il luogotenente colonnello Cecil Roseberry, capo della Sezione italiana (J Section) del SOE, inviava all’agente, maggiore Max Salvadori, appena sbarcato a Salerno, nella quale gli si comunicavano gli ordini dello Stato Maggiore Militare britannico con riguardo ai rapporti da osservare con gli antifascisti e, in particolare, con i suoi "vecchi amici" di Giustizia e Libertà (GL). In sintesi, l’ordine era di non incoraggiare ‹‹gli agitatori politici›› ovvero alcuna ‹‹strategia rivoluzionaria›› o ‹‹movimento politico››: l’organizzazione doveva, da un lato, assistere il Movimento della Resistenza nel compimento di operazioni speciali oltre le linee nemiche e, dall’altro, mantenere la collaborazione ufficiale con il Governo e l’esercito italiano per il compimento di azioni militari contro la Germania, da svolgersi avvalendosi di ‹‹fidato personale militare (e non di certo operante come militare)››, ed era  ‹‹d’obbligo usare una buona dose di tatto e discrezione››, affinché l’agenzia segreta inglese non rischiasse di ‹‹compromettersi agli occhi dello Stato Maggiore italiano››, così concludendo: "C’è un solo nemico ora; Il Fascismo è morto e noi e gli Italiani dobbiamo essere uniti per liberarci dei Tedeschi. Non può esserci pace in Italia sino a quando non vi sarà pace in Europa".
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012
 
Peter Tompkins (che dell’OSS fu uno dei membri più importanti ed attivi) afferma che la politica britannica era favorevole alla ristabilizzazione di una monarchia liberale in Italia e voleva impedire che in Italia vi fosse un vero e proprio cambiamento dovuto al fatto che la Resistenza al Nord era sempre più politicamente orientata a sinistra; temendo una ripetizione della situazione greca, le autorità britanniche decisero di sostenere esclusivamente la Resistenza militare e monarchica (le formazioni autonome del generale Cadorna) e pertanto il SOE prese contatti con i servizi del Regno del Sud: il SIM con i suoi residuati fascisti. Churchill inviò a Brindisi uno “sciame di servizi segreti” che però non essendo ancora disposti a recarsi oltre le linee si appoggiarono al SIM, su disposizione di Alexander.
A Brindisi Badoglio cercò di convincere gli inglesi che la resistenza nell’Italia occupata dai tedeschi era organizzata in gran parte da personale del disciolto esercito regolare con il quale i monarchici affermavano di essere in contatto grazie a un canale radio segreto del SIM. Badoglio e il re con l’arma del SIM intendevano impedire la formazione di un movimento armato antifascista nell’Italia occupata dai tedeschi, per mantenere solo quello che richiedevano gli inglesi, cioè “piccoli gruppi di agenti adibiti unicamente ad operazioni di sabotaggio e di ricerca di informazioni militari”: in pratica la Special force creata dall’Intelligence service.
Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana, La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013


L’O.S.S. ottenne anche di poter impiegare un sommergibile italiano per le missioni di sbarco in Adriatico. Inoltre, per diretto intervento del generale Donovan, capo dell’O.S.S., fu deciso l’invio a Roma del giornalista Peter Tompkins, facente parte dell’ala moderata dell’O.S.S. In imminenza dello sbarco ad Anzio, Tompkins, con un agente emiliano di sua fiducia, fu trasportato da un velivolo B-26 fino a Campo Borgo, in Corsica, vicino a Bastia, ove armato di Beretta calibro 9, con 300 sovrane d’oro, i codici segreti e i quarzi per la radio e una macchina fotografica Minox, imbarcò sulla sezione dei due MAS 541 e 543 italiani assegnati alla missione. Costeggiata l’Isola d’Elba, i due MAS sbarcarono, all’alba del 20 gennaio, il gruppo circa 30 km a nord di Tarquinia (probabilmente alla foce del Fosso Tafone). Lo sbarco avvenne con battellino di gomma giallo, che veniva destinato allo scopo, sul quale prendevano posto tre persone, di cui una destinata a riportare indietro il battellino. Con un’automobile guidata da italiani percorsero l’Aurelia, per giungere a Tarquinia e deviare per la Cassia, in direzione di Viterbo, riuscendo a raggiungere Roma, ove presero contatto con il gruppo inviato in precedenza e con Franco Malfatti, già assegnato alla commissione italiana di armistizio con la Francia e poi funzionario del S.I.M., nel periodo del governo Badoglio. Tompkins incontrò anche elementi del C.L.N.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale, Anno XXIX, 2015, Editore Ministero della Difesa

C’era poi una terza missione, denominata in codice Greenbriar, destinata anch’essa alla zona di Salerno. La componevano gli uomini del progetto McGreggor agli ordini di John Shaheen; anche con loro c’era un operatore radio che li avrebbe tenuti in contatto con il nostro comando di Palermo per mezzo di una radio da campo SSTR-1. L’operatore radio era Peter Tompkins, arrivato al SI [Servizio informazioni dell'OSS] dalla sezione guerra psicologica, PWB. Essendo vissuto in Italia prima della guerra Tompkins parlava bene l’italiano. Ormai le trattative per l’armistizio non erano più un segreto, ma Shaheen continuò a perseguire il suo obiettivo fino all’ultimo, cercando di mettersi in contatto con l’Ammiraglio Girosi per far uscire l’Italia dal conflitto […] All’insaputa di Huntington, Peter Tompkins ed alcuni altri elementi ai suoi ordini facevano un tipo di politica che non piaceva né agli Inglesi, né ad alcuni degli ufficiali italiani che erano in contatto con l’OSS. Questi ufficiali erano offesi dalle pesanti critiche mosse al governo Badoglio e dai continui dubbi espressi sulla fedeltà e sulla competenza degli uomini assegnati alle attività di spionaggio.
Max Corvo, La campagna d’Italia dei servizi segreti americani 1942-1945, Libreria Editrice Goriziana, 2006

Posti alle dipendenze del Corpo d'armata francese di Juin, e successivamente di quello polacco di Anders, gli italiani del ribattezzato CIL (Corpo Italiano di Liberazione) si dimostrarono all'altezza delle altre truppe. Avevano avuto l'apporto di un battaglione di alpini, uno di arditi, uno di bersaglieri, uno di marinai da sbarco. Quindi si aggiunse loro il grosso della divisione paracadutisti Nembo, proveniente dalla Sardegna. Sulla efficienza bellica di questa unità non v'erano dubbi: ve n'erano invece - e gli inglesi li affacciarono ostinatamente - sulla sua affidabilità politica. Era avvenuto infatti che dopo l'armistizio un battaglione della Nembo, per sollecitazione dei suoi ufficiali, fosse passato ai tedeschi, che successivamente lo impiegarono al fronte (dove si comportò eccellentemente). Altrettanto bene si batterono poi in campo opposto, nonostante i dubbi inglesi, i battaglioni rimasti fedeli al Re. Il che dimostra che nelle truppe speciali lo spirito di corpo e il sentimento dell'onore stanno molto al di sopra dell'ideologia. Da cinquemila che erano nel raggruppamento motorizzato, i combattenti italiani diventarono così 15 mila: poca cosa nel complesso di una forza militare imponente, ma abbastanza per attestare che c'erano ancora in Italia dei giovani disposti a rischiare la vita per la loro bandiera. Umberto di Savoia avrebbe voluto assumere il comando del CIL, ma la Commissione alleata di controllo glielo vietò con pretesti burocratici - un generale d'armata (per la precisione Umberto era maresciallo d'Italia ma non ne portava i gradi, N.d.A.) non poteva essere messo a capo di quella che in sostanza non era che una divisione - che mascheravano ragioni politiche. Il Principe si disse disposto a essere retrocesso a generale di divisione o a colonnello ma, ha scritto Leandro Giaccone nel suo Ho firmato la resa di Roma, «neppure questo modesto obolo fu concesso al regale mendicante d'onore».
Indro Montanelli - Mario Cervi, Storia d'Italia. L'Italia della guerra civile. Dall'8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

La carriera di James Angleton era iniziata un anno prima, quando era stato nominato nel novembre del '44 dirigente della sezione romana del controspionaggio americano - chiamata Special Counter Intelligence/Unit Z (SCI/Z) -, mentre il 25 aprile del 1945 venne promosso capo di tutto il settore del controspionaggio, denominato X-2, nella penisola <326.
Nell’autunno del ’44 la nomina di Angleton a capo della sezione romana comportò un netto cambiamento nella politica e nel tipo di operazioni condotte dal servizio segreto americano in Italia. Voluta tanto dal generale Donovan quanto dai vertici dei servizi segreti inglesi, con cui l’Oss collaborava, la nomina di Angleton era una mossa decisa da entrambi in direzione di un orientamento in senso anticomunista dell’azione dell’Oss: l’ufficiale della sezione X-2 dell’intelligence statunitense era noto per le sue posizioni fortemente anticomuniste e per le sue amicizie e simpatie negli ambienti fascisti. Egli infatti era cresciuto a Milano, e prima di frequentare l’università di Yale aveva mantenuto stretti rapporti con l’entourage fascista della città <327. Grande ammiratore di Ezra Pound, era convinto che il male assoluto fosse rappresentato dall’Unione Sovietica, e che l’avanzata di questa verso l’Europa centrale fosse il preludio per una diffusione del comunismo in tutto il continente, da cui poi si sarebbe propagato nel mondo <328.
La sua propensione a ragionare in termini antisovietici aveva favorito la preferenza nei suoi confronti da parte dei vertici dell’intelligence inglese, all’epoca della sua formazione tra i ranghi della dirigenza Oss a Londra, al punto che venne ammesso nella “ristrettissima cerchia di coloro che avevano accesso alle informazioni di Ultra [il codice di decriptazione dei messaggi segreti del Reich, n.d.a.], unico non britannico” <329.
Da poche settimane alla guida della sezione di controspionaggio a Roma, alla fine di dicembre del ‘44 il giovane Angleton aveva cominciato ad occuparsi delle trattative con il comandante della Decima Mas. Il principe Junio Valerio Borghese, che al comando del suo corpo d'assalto della Marina dopo l'8 settembre aveva aderito alla Rsi <330, si stava organizzando per sopravvivere dopo la sconfitta con una parte della sua organizzazione.
[NOTE]
326 Cfr. T. Mangold, Cold Warrior. James Jesus Angleton: the CIA's Master Spy Hunter, New York, Simon & Schuster, 1991, p. 43. Alcuni anni più tardi, nel 1953, Angleton divenne direttore dell’intero controspionaggio statunitense, raggiungendo i massimi livelli del potere politico-militare. Filoisraeliano, ebbe poi modo di curare la fondazione del Mossad (Cfr. M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la "guerra psicologica" in Italia. 1948-1956, in "Studi Storici", 1998, n. 4, p. 959).
327 Cfr. T. J. Naftali, “ARTIFICE: James Angleton and X-2 Operations in Italy”, in G. C. Chalou (a cura di), The Secrets War. The Office of Strategic Services in World War II, Washington DC, National Archives and Records Administration, 1992, pp. 218-219.
328 Cfr. T. Mangold, Cold Warrior, cit., pp. 35-36.
329 P. Tompkins, L’altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di Liberazione nel racconto di un protagonista, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 407; cfr. a questo proposito anche l’articolo di T. J. Naftali, “ARTIFICE: James Angleton and X-2 Operations in Italy”, in G. C. Chalou (a cura di), The Secrets War, cit., pp. 222-223.
330 Sul ruolo e la figura di Borghese durante il periodo della Repubblica sociale cfr. L. Ricciotti, La Decima Mas, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 13-43; F. W. Deakin, La brutale amicizia: Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, cit., pp. 804-805, 876; e L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Milano, Giunti, 2002, pp. 60-62.
Siria Guerrieri, Obiettivo Mediterraneo. La politica americana in Europa Meridionale e le origini della guerra fredda. 1944-1946, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma "Tor Vegata", Anno accademico 2009/2010 

Dopo l’armistizio del 8/9/43 il SIM fu riorganizzato dal nuovo governo di Pietro Badoglio ed al suo interno si riformò anche la Sezione Calderini (al cui comando si trovava il colonnello Giovanni Duca <5) che operò «a stretto contatto con lo Special Operations Executive (SOE) britannico e l’Office of Strategic Services (OSS) statunitense, tessendo importanti nuclei di resistenza nell’Italia occupata». Agrifoglio, che si trovava in Tunisia al momento dell’armistizio, era stato fatto prigioniero dai britannici, e fu poi inviato in Italia per dirigere il nuovo SIM, che doveva essere sotto il controllo alleato <6.
L’attività della Calderini consisteva «in missioni informative, di sabotaggio e di collegamento e supporto alle formazioni partigiane», e tra le «personalità ed episodi di rilievo» troviamo l’allora tenente colonnello Aldo Beolchini, il capitano Alberto Li Gobbi, la «missione Cadorna nell’Italia del Nord» e la «missione Sogno con il tentativo di liberare l’on. Parri» <7; ed ancora: la Calderini riformata «durante la Resistenza aveva sovrainteso alle missioni congiunte degli italiani con gli alleati, che si battevano per il ristabilimento della libertà, operando clandestinamente nel territorio occupato dai tedeschi, dopo l’8 settembre e fino alla Liberazione nel 1945».
All’inizio del 1945 il Servizio segreto militare diventa Ufficio informazioni dello Stato maggiore generale, e la Calderini (che era formata esclusivamente da ufficiali e dislocata per lo più oltre le linee, cioè in territorio occupato) diventa Prima sezione; ne esce il Primo gruppo, che diventa Gruppo speciale all’interno del SIFAR e darà poi origine alla SAD (Sezione addestramento guastatori), base su cui si fonderà la struttura della Gladio. Infatti «più ufficiali che avevano militato in questa specifica struttura del Servizio di sicurezza militare nella fase finale dell’ultimo conflitto mondiale risultavano essere poi stati definitivamente incardinati nel SIFAR e quindi nel SID, con la attribuzione di funzioni proprio all’interno della Sezione che per anni ebbe a fungere motore dell’Operazione Gladio: la Sezione Addestramento Guastatori».
[NOTE]
5 Giovanni Duca fece parte della rete militare di resistenza del colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo (che fu ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine); arrestato nel Veneto assieme al figlio Luigi (che morirà nel lager di Mauthausen), fu incarcerato a Verona, torturato ed ucciso nell’agosto del 1944. Medaglia d’Oro al V.M. alla memoria. Da lui prese il nome «una struttura occulta denominata Duca e formata presumibilmente da ufficiali e sottufficiali del SIFAR» esistita fino al gennaio 1955 (cfr Giuseppe De Lutiis, “I servizi segreti in Italia”, Sperling & Kupfer 2010, p. 51), che sarebbe stata antesignana della Gladio.
6 Andrea Vento, “In silenzio gioite e soffrite”, Saggiatore 2010, p. 273.
7 “Note esplicative in merito all’archivio SIM custodito dalla SAD”, d.d. 12/7/73 a firma del capo Ufficio R colonnello Fortunato. Il documento si trova a p. 1.629 della Sentenza ordinanza n. 318/87 A. G.I., Procura di Venezia, GI Carlo Mastelloni, relativa al misterioso “incidente” occorso all’aereo Argo 16 (d’ora in poi SO 318/87); ringrazio il dottor Mastelloni per avermi messo a disposizione il testo. Aldo Beolchini Bianchi, uomo di fiducia del comandante del CVL, generale Raffaele Cadorna, era l’organizzatore della “Rete TCB” (cioè Tenente Colonnello Beolchini o Bianchi); delle varie “personalità ed episodi” avremo modo di parlare in seguito.
Claudia Cernigoi, Momenti di Sogno, La Nuova Alabarda, Dossier n. 58, Trieste, 2018

L'insieme di tale documentazione aiuta dunque a comprendere quanto alcuni elementi sempre considerati marginali abbiano invece condizionato la nascita della democrazia italiana, soprattutto in virtù delle relazioni stabilite dall'organizzazione neofascista con l'intelligence americana, cosa che permise a quest’ultima di ottenere margini di azione altrimenti non raggiungibili [392].
Si era formato un piccolo esercito segreto, pronto a rivolgere le sue potenzialità all’ottenimento di un preciso scopo: quello di garantire la collocazione internazionale dell'Italia all'interno dello schieramento atlantico [393].
I documenti dell'intelligence statunitense desecretati nel 2002 mostrano come a giudizio di Angleton esistessero due fronti, di importanza vitale, su cui lavorare in Italia: mentre il primo era formato dai confini con i Balcani, il secondo era costituito dai luoghi in cui la forza elettorale dei comunisti cresceva eccessivamente, cosa che accadeva soprattutto in Sicilia.
[NOTE]
392 La portata del fenomeno di riunificazione avvenuto sotto il comando di Polvani, Buttazzoni e Borghese è sempre stata storicamente sottovalutata, anche perché non se ne conoscevano né le dimensioni né l'importanza in relazione agli scopi che i neofascisti si erano prefissati. La rilevanza e la forza di questa organizzazione e, come abbiamo visto, la serietà degli obiettivi anticomunisti, aveva fatto sì che anche il Pci e Togliatti ne fossero venuti a conoscenza e avessero dovuto confrontarcisi.
393 Il Sostituto Procuratore di Padova Sergio Dini, nell'ambito di un'indagine relativa proprio ai rapporti tra i nuclei della Decima Mas e l'organizzazione Gladio, ha ottenuto nel febbraio 2005 la testimonianza di Nino Buttazzoni, nella quale l'ex comandante repubblichino ha illustrato il suo "lavoro di organizzatore di nuclei di resistenza e di guerriglia che, secondo la tecnica classica dello Stay Behind, avrebbero dovuto continuare ad operare nelle zone già liberate dagli anglo-americani e rimanere attivi anche dopo la fine della guerra, anche se in sonno", facendo ampio riferimento poi ai contatti con James Angleton, il quale gli aveva proposto "di collaborare con i Servizi segreti statunitensi in funzione anticomunista e antislava". Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, XIV legislatura, doc. XXIII, n.18-bis, relazione cit., pp. 220-221. La Commissione d'Inchiesta ha stabilito che i nuclei organizzati dalla Decima Mas, destinati a rimanere dietro le linee nemiche in caso di invasione jugoslava sul confine orientale, divennero il modello di utilizzo per l'intera rete, avendo gli americani il progetto di costituire la "stay-behind" che poi, una volta realizzata, verrà denominata Gladio.
Siria Guerrieri, Op. cit.

Renzo De Felice citava un certo numero di documenti, testimonianze e “piste”, che contraddicevano la vulgata, a cominciare da una relazione segreta, di circa cinquecento pagine, redatta da un agente dell’OSS, alla fine della sua missione nell’Italia del nord, foriera di ‹‹molte nuove verità›› <12. Tale fonte, che è stata analizzata in altra sede <13, fu il frutto dell’indagine compiuta dal colonnello Valerian Lada Mocarski -agente n. 441, nome in codice “Valla”, “Maj”, “Topper” <14- per ordine di Allen Dulles, direttore della Sezione svizzera del Secret Intelligence (d’ora in poi, SI) dell’OSS, al fine di ricostruire i fatti e accertare le responsabilità della morte di Benito Mussolini, dopo che gli americani dovettero, loro malgrado, registrare il fallimento delle molteplici missioni lanciate nell’Italia settentrionale durante le ultime tumultuose settimane di aprile ’45 miranti all’obiettivo di catturare il Duce vivo <15.
[NOTE]
12 R. De Felice, Rosso e Nero cit., p. 145.
13 Uno stralcio di tale relazione segreta è stato riportato, nella versione tradotta in italiano, in appendice al saggio di M. Sapio, Gli ultimi giorni di Mussolini tra storia e verità cit. nonché commentato, in chiave critica, in
M. Sapio, Ma davvero è stata scritta la parola fine? cit. Una sintesi è stata pubblicata con il titolo The last three days of Mussolini in ‹‹Atlantic Montlhy››, n. 6 del dicembre 1945.
14 Valerian Lada Mocarski, russo, discendente di una famiglia nobile travolta dalla rivoluzione bolscevica emigrata negli Stati Uniti, si arruolò quale ufficiale nell’esercito americano nel 1941 e fu, quindi, reclutato nell’OSS e destinato in Medio Oriente, Egitto, Francia e, infine, in Svizzera, dove si trovava durante gli ultimi giorni di Mussolini. Nel giorno di Piazzale Loreto, passò nell’Italia del nord e, infine, si ritirò dall’esercito nel 1945. Dopo la guerra fu nominato vicepresidente della G. Henry Shroeder Banking Corporation a New York.
15 Oltre alla missione del capitano Emilio Daddario già trattata nel capitolo precedente, molteplici furono le missioni alleate di cui si resero artefici, soprattutto, i servizi segreti americani, che furono lanciate nel nord dell’Italia nelle ultime settimane di aprile ’45, con l’obiettivo di catturare Mussolini vivo. Per una panoramica di queste iniziative, si rinvia a M. Sapio, Ma davvero è stata scritta la parola Fine? cit., nt. 43, p. 142.
Michaela Sapio, op. cit.

Gli americani diedero vita alla democrazia in Italia nel 1943, e presero in considerazione l'idea di soffocarla nel 1948. Era una loro creatura, ma minacciava di mettersi su una cattiva strada.
Un rapporto della Cia, rimasto segreto finora, rivela come il padre padrone ebbe per un attimo la tentazione dell'infanticidio.
Il rapporto, intitolato «Conseguenze di un accesso dei comunisti al potere in Italia con mezzi legali», reca la data del 5 marzo 1948 e risponde a una serie di quesiti angosciosi del governo di Washington.
In Italia manca poco più di un mese alle elezioni. Da Roma l'ambasciatore James Dunn manda telegrammi sempre più pessimisti: una vittoria del «Fronte Popolare» socialcomunista sembra probabile. Il National Security Council, che riferisce direttamente al presidente Harry Truman, ha chiesto ai servizi segreti di valutare la situazione che si creerebbe se il partito di Togliatti andasse al governo.
«Nel futuro prevedibile - risponde la Cia - questa situazione potrebbe verificarsi soltanto come risultato di una vittoria del Fronte Popolare nelle elezioni del 18 aprile. Almeno un mese dovrebbe passare tra tali elezioni e l'insediamento di un nuovo governo. Anche se il Fronte Popolare vincesse con il voto la maggioranza dei seggi in parlamento, il suo effettivo accesso al potere potrebbe essere impedito falsificando i risultati, oppure con la forza».
Chi potrebbe usare la forza?
Il governo americano di Truman, quello italiano di De Gasperi, oppure le formazioni di destra come il «Gladio» che gli americani stanno incoraggiando segretamente in Italia per reagire alla minaccia comunista?
Il documento della Cia non lo precisa, ma fa presente che in caso di guerra civile gli anticomunisti non potrebbero vincere «senza immediati e sostanziosi aiuti dall'estero».
Ennio Caretto - Bruno Marolo, Made in Usa, Rizzoli, 1996

lunedì 27 settembre 2021

Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane in Etiopia

Addis Abeba, 5 maggio 1936. La popolazione sventola drappi bianchi in segno di resa all’ingresso in città della colonna Badoglio. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Addis Abeba, 5 maggio 1936. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

[...] Negli anni Trenta, il Partito Comunista d’Italia adotta un atteggiamento anticolonialista, a partire dal pensiero gramsciano e dalla solidarietà globale con gli oppressi e con la manodopera migrante di tutto il mondo. Presto, il PCd’I lancia una campagna anticoloniale contro l’invasione dell’Etiopia, cercando di influenzare anche le comunità italiane all’estero, augurandosi ottimisticamente che possa fare da leva per la caduta del regime (la si dipingeva come una guerra dispendiosa per l’Italia che avrebbe mietuto molte vittime fra gli arruolati che provenivano dalle classi povere), quando invece la guerra d’Etiopia fu, come è noto, il momento di maggior popolarità del Fascismo e del suo capo.
Nel 1938, il PCd’I invia una sua «missione» in Etiopia, composta da tre membri, Ilio Barontini (già antifascista in Spagna e futuro partigiano), Domenico Rolla e Anton Ukmar; secondo lo storico Angelo Del Boca, dietro la missione c’era anche lo zampino dell’intelligence britannica che voleva raccogliere informazioni sulle forze ribelli etiopi, tanto che infatti un ufficiale inglese accompagnò i tre compagni nel loro viaggio verso l’Etiopia. In ogni caso, l’obiettivo della missione era coadiuvare l’organizzazione dei partigiani locali in piccoli gruppi di guerriglia, per contrastare più efficacemente gli italiani. Nella testimonianza pubblicata nel 1966 su Rinascita, emerge come ai tre fu chiesto di presentarsi ai loro compagni etiopici non come membri del Partito, né come italiani, ma come militanti internazionalisti.
Nel tuo libro Italian Colonialism and Resistances to Empire, 1930-1970 (Palgrave, 2018) proponi una nuova storia culturale dell’imperialismo italiano. Sostieni che l’Impero fascista permetta di disintegrare un’idea di colonialismo e di resistenza anticoloniale tutta influenzata dai modelli inglese e francese. Non si tratta tanto di una specificità del colonialismo italiano (che venne rivendicata a scopo legittimante fin dalla guerra di Libia e che viene ancora utilizzata a scopo giustificativo da chi continua a pensare che «italiani = brava gente»), ma piuttosto di una specificità della Resistenza anticoloniale in Etiopia, che fu molto sostenuta, fuori dal paese, da un’internazionale nera, mossa dal significato simbolico e politico che l’Impero etiope aveva agli occhi della diaspora nera nel mondo. Gli stessi giacobini neri ai quali è intitolata questa rivista vennero raccontati dall’intellettuale caraibico C.R.L. James proprio su spinta della resistenza in Etiopia: Black Jacobins uscì nel 1938 [...]
Michela Pusterla, La storia nascosta dell’anticolonialismo italiano, Jacobin Italia, 14 novembre 2019

La mancata reazione immediata all'incidente di Ual-Ual (5-6 dicembre 1934) <1 sulla stampa del P.C.d'I. è forse dovuta al fatto che, quando esso avviene, sia "L'Unità" che "Lo Stato Operaio" (organo e rivista teorica del partito) sono già chiusi in tipografia.
Tuttavia, anche se il P.C.d'I., da sempre attento alle malefatte del fascismo, ignora che i primi piani italiani per conquistare l'Etiopia risalgono al 1932 - cioè a subito dopo la totale pacificazione della Libia <2 - , la tregua concessa al Duce dal P.C.d'I. sul problema etiopico durerà ben poco. Se, infatti, all'inizio del 1935, a Ual-Ual e al problema etiopico si fanno solo degli accenni <3, essi saranno poco dopo affrontati direttamente. Si riparlerà infatti dell'incidente e di un'eventuale guerra italiana all'Abissinia, che pare sempre più vicina, in occasione della firma degli accordi franco-italiani di Roma (6-7 gennaio 1935). <4
In uno scritto su questo tema, oltre a notare che questo patto non diminuisce affatto il pericolo di guerra, si scrive: "Ma più importante di ciò che l'Italia ha ottenuto è ciò che (...) si ripromette di ottenere in Africa nel campo della collaborazione «pacifica» in Etiopia, e il cui primo atto è la partecipazione alla ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Questa dichiarazione (...) viene fatta nel momento in cui il governo abissino fa appello alla Società delle Nazioni contro l'aggressione delle truppe italiane sul territorio del paese africano. L'Italia, dunque, avrebbe avuto carta bianca per la sua penetrazione «pacifica» (...) in Etiopia?" <5
Questa prima reazione del quotidiano può apparire inadatta a quanto potrebbe accadere, poiché è espressa in forma dubitativa, ma è spiegabile perché: 1) non è noto il vero senso degli accordi di Roma; 2) il P.C.d'I. ignora che, fin dal 30 dicembre 1934, Mussolini ha consegnato ai suoi più stretti collaboratori un memoriale dal titolo "Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo abissina". <6 Anche questa nuova tregua durerà ben poco: infatti, "Lo Stato Operaio", già nel febbraio 1935, pubblica due articoli che chiariscono come ormai si aspetti solo il momento dell'attacco fascista all'Etiopia, poiché non ci si illude su una composizione pacifica della vertenza italo-etiopica. Nel
primo <7 si parla, oltre che dell'incidente di Ual-Ual, anche di quello precedente di Gondar, per sottolineare la ormai chiara volontà fascista di occupare l'Etiopia. <8 Ma non solo: dopo un appello al popolo italiano a lottare contro la guerra - futuro asse della politica del partito <9, si scrive: "Le popolazioni abissine divengono, perciò, delle alleate del proleatariato e dei lavoratori italiani nella lotta contro il fascismo e contro l'imperialismo italiano." <10 Inoltre, si afferma che "L'interesse dei lavoratori italiani e delle popolazioni abissine, in questa guerra, è di battere l'imperialismo italiano e il fascismo" <11 e si invitano poi i primi ad una costante "(...) attività antimilitarista e antiguerresca (...)" <12 che si riallacci ad esempi del passato. <13
Nel secondo <14, invece, si rievocano tutte le imprese coloniali italiane fra cui quelle - fallite - in Abissínia, e si ricorda che, già in passato, la situazione nel settore era difficile per l'Italia. <15 Ci si chiede poi quando inizieranno la operazioni militari, e si constata che: 1) l'Italia farà da sola la guerra, e ciò significa un doppio sacrificio - di sangue ed economico - per il paese; 2) l'invio di truppe italiane in Africa Orientale è già una guerra che il fascismo deve per forza vincere per non cadere. <16
Rilevato poi come il cinico inganno del fascismo agli italiani, convinti di andare in Abissinia per lavoro e non per fare la guerra <17, si aggiunge che questo non è però il solo motivo, perché "Il fascismo in Africa va a fare una guerra (...) brigantesca (...). Ma (...) maschera i suoi scopi di rapina imperialistica con la più sfrenata demagogia patriottica (...)", dato che "La più inconfessabile politica di rapina (...) viene presentata come una necessità di difesa
nazionale, (...) una missione di civilizzazzione, (...) un mezzo per dare pane e lavoro ai
disoccupati italiani." <18
Il P.C.d'I. vuol chiaramente smitizzare il sogno africano creato dalla propaganda fascista nel popolo italiano <19, ma anche agire fra i lavoratori italiani per causare la sconfitta del fascismo. <20
Ogni possibile tregua tra il fascismo e i comunisti italiani è ormai finita, perché nel citato scritto si parla di argomenti e temi poi ripresi dalla stampa del P.C.d'I., ma non solo: essi sono già infatti - del tutto о in parte - un patrimonio di tutto l'antifascismo italiano. <21 [...]
[NOTE]
1 Sull'incidente di Ual-Ual cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, III: La conquista dell'Impero, Milano, Mondadori, 1992, pp. 244-291; Renzo De Felice, Mussolini il Duce, I: Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1996, pp. 610-616; Luigi Salvatorelli - Giovanni Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1963, pp. 819-820; Enzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Π, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 167-168; Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, IX: Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 340-341. Ma cfr., inoltre, George W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell'equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970, pp. 59-82.
2 Su questi piani italiani contro l'Etiopia cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 156-159 e pp. 169-179; R. De Felice, op.cit., pp. 603-605; G. Candeloro, op.cit., pp. 337-338.
3 Cfr., ad esempio, La via della salvezza per i lavoratori è la via del bolscevismo, la via della lotta contro il corporativismo e per il potere sovietico (non firmato: d'ora in poi n.f.), in "L'Unità", 1935, 1, appello alla lotta contro una possibile guerra per far cadere il fascismo, ed Egidio Gennari, Per una «coscienza coloniale» proletaria, in "Lo Stato Operaio", 1, gennaio 1935, pp. 24-31: vi si parla della colonizzazione italiana della Libia.
4 Sugli accordi franco-italiani di Roma cfr. L. Salvatorelli - G. Mira, op.cit., p. 817; R. De Felice, op.cit., pp. 602-603; A. Del Boca, op.cit., pp. 259-260; G. W. Baer, op.cit., pp. 82-127. Per parte francese cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Politique étrangère de la France. La décadence (1932-1936), Paris, Le Seuil, 1979, pp. 133-139. Sulle reazione del P.C.d'I. e del P.C.F. agli accordi cfr. Giuliano Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 17-22. Gli accordi franco-italiani di Roma non diminuiscono il pericolo della guerra (n.f.), in "L'Unità", 1935, 2. Sulla posizione del P.C.d'I. cfr. G. Procacci, op. cit., p. 21.
6 Su questo documento cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 255-259 (che lo analizza in dettaglio); R. De Felice, pp. 606-610 (che, a p. 608, sottolinea indirettamente il passaggio sul possibile uso di gas asfissianti); G. Procacci, op.cit., p. 9; G. Candeloro, op.cit., pp. 341-344.
7 Cfr. Nostri compiti urgenti (n.f.), in "Lo Stato Operaio", 2, febbraio 1935, pp. 83-92
8 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 83.
9 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 84.
10 Art.cit., loc.cit., p. 85.
11 Art.cit., loc.cit., p. 85.
12 Art. cit., loc.cit., p. 91.
13 Art. cit., loc.cit., p. 91.
14 Cfr. Luigi Gallo (Luigi Longo), Per la disfatta dell 'imperialismo italiano, ivi, pp. 93-101.
15 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 93-94.
16 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 95.
17 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 96.
18 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 97.
19 Su questo tema cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in AA.VV., Le guerre coloniali del fascismo (a cura di Angelo Del Boca), Bari, Laterza, 1991, pp. 60-71; A. Del Boca, op.cit., pp. 320-350; R. De Felice, op.cit., pp. 626-643.
20 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 98-101.
21 Su questo tema cfr. Enzo Santarelli, L'antifascismo di fronte al colonialismo, in AA.W., Le guerre coloniali del fascismo, cit., pp. 79-92.
Alessandro Rosselli (Università di Szeged), Il Partito Comunista d'Italia e la guerra d'Etiopia. Una rassegna sulla stampa comunista, Études Sur La Région Méditerranéenne, 15, pp. 45-61, 2006  

L’obiettivo del progetto è quello di esplorare alcuni momenti specifici della politica coloniale del partito, ovvero le missioni di Velio Spano in Egitto e Tunisia (1936-1943), la spedizione di Ilio Barontini in Etiopia (1939) e l’operato del Pci in Somalia (1942-1950), per gettare nuova luce e colmare alcune lacune storiografiche relative all’azione dei militanti comunisti in questi contesti, ai loro rapporti con i movimenti locali, all’analisi del colonialismo da parte del partito e al ruolo della Terza Internazionale (Comintern) nell’organizzazione di queste iniziative. Inoltre, il progetto intende indagare come, a seguito della svolta di Salerno e con la nascita del ‘Partito Nuovo’, il Pci sviluppa la propria riflessione sul colonialismo, da un lato in termini pedagogici, attraverso la pubblicazione di letteratura destinata ai militanti, dall’altro attraverso la partecipazione di propri delegati agli incontri internazionali della Federazione mondiale della gioventù democratica e dell’Unione internazionale degli studenti.
[...]
Giulio Fugazzotto, Al servizio di una rivoluzione globale? I comunisti italiani e il colonialismo tra antifascismo e anti-imperialismo. 1926-1950, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, 2021

Fonte: Fondazione Gramsci



Sunto
Quest'articolo si concentra sulle particolari caratteristiche dell'imperialismo fascista e sul suo sforzo di costruire una coscienza nazionale tramite il riscatto coloniale per mezzo della guerra contro l'Abissinia. Tentativo che ha incontrato una risposta ambivalente in Italia e all'estero, tra gli antifascisti in esilio.
Lo studio della politica del Partito comunista sulla questione della guerra italo-etiopica a metà degli anni Trenta ci permette di ricostruire la sfida degli antifascisti al regime, su scala internazionale, che avrà una ripercussione più profonda in seguito durante la guerra civile spagnola.
[...] Tuttavia, di fronte a una guerra che rischiava di coinvolgere le grandi potenze del Mediterraneo, non poche erano le titubanze e all'inizio anche da parte dei vertici fascisti, in particolare dei gerarchi sensibili ai buoni rapporti con Francia e Inghilterra, si registravano incertezze ed esitazioni. <27
La preoccupazione di un'opinione pubblica riluttante alla guerra indusse il regime ad intensificare l'opera di controllo sulla stampa, le pubblicazioni, le trasmissioni radiofoniche e cinematografiche.
Nell'estate del 1935, la questione etiopica divenne il centro dell'attività propagandistica e, il 25 giugno 1935, tutto l'apparato mediatico venne centralizzato nel Ministero della stampa e della propaganda, diretto da Ciano. In questo modo i giornali, le radio, i cinegiornali, i periodici, furono interamente sottomessi alle esigenze della guerra. Il regime riuscì anche a contrabbandare quella che Baer definisce “un'evasiva politica di inazione” <28 della Francia e dell'Inghilterra in un'ostilità attiva contro i legittimi diritti dell'Italia di espandersi in Africa e rinserrare l'opinione pubblica attorno alla “patria fascista”.
La Chiesa fornì un contributo fondamentale alla formazione del consenso bellicista: dopo un primo disorientamento da parte delle organizzazioni e delle gerarchie cattoliche, anche per le prese di posizione ufficiali del papa in favore della deposizione delle armi, <29 allo scoppio delle ostilità il clero si schierò, con poche eccezioni, per la guerra esaltata come missione civilizzatrice della nazione cattolica impegnata a redimere gli schiavi, i barbari e popoli senza Dio. <30
Tra i più accesi sostenitori si trovava il cardinale Schuster della diocesi di Milano. Ma anche motivi internazionali spingevano il Vaticano a sostenere il fascismo. Mentre nazioni cattoliche come l'Austria sostenevano l'impresa africana, l'Inghilterra protestante si opponeva all'avventura italiana in Africa, insieme con la Francia laica e massone, che forniva asilo politico ai fuorusciti comunisti e socialisti e aveva stipulato nel 1935 un patto con l'Unione sovietica bolscevica.
Come scriveva Ernesto Rossi, bisognava combattere contro il “protestantesimo che, in combutta con la massoneria, col comunismo e con l'antifascismo, si sforza di abbattere la civiltà di Roma, perché cattolica”. <31
Poco importava che in Etiopia venissero impiegate truppe musulmane libiche e somali per massacrare i cristiani copti, o che in fondo la stessa Unione sovietica era legata da un trattato di non aggressione con l'Italia fin dal 1933.
Il culmine dell'infatuazione nazionalistica si ottenne con la “giornata della fede”, indetta per il 18 dicembre 1935, due mesi dopo lo scoppio delle ostilità e la proclamazione delle sanzioni, che erano entrate in vigore però solo il 19 novembre. A questa campagna, che si prolungò per varie settimane, e che consisteva nel donare la fede nuziale oltre che tutto l'oro, l'argento e il ferro, parteciparono tutti gli strati della popolazione.
Lo stesso filosofo e senatore antifascista Benedetto Croce contribuì, donando la medaglietta senatoriale, pur dichiarando di non approvare la politica del governo; vescovi e cardinali parteciparono alla raccolta, donando i loro ori e invitando i fedeli a fare altrettanto. A livello più generale la guerra mobilitò pressoché tutti gli strati della classe dirigente, anche quelli che fino a quel momento avevano nutrito un atteggiamento critico, e degli intellettuali, da D'Annunzio e Marinetti, le cui simpatie per il fascismo non erano un mistero, ad intellettuali che passavano per antifascisti come Sem Benelli o altri. La piccola e media borghesia nazionalista, i lavoratori dell'industria e i contadini furono anch'essi coinvolti, con scarse eccezioni, nel sostegno alla guerra.
Scrive, sconsolatamente, “Lo Stato Operaio”, organo del Partito comunista: “il fascismo è riuscito per il momento a fanatizzare non soltanto larghi strati di piccola borghesia ma anche una parte non indifferente della gioventù proletaria.” <32
Alle donne veniva poi affidato un ruolo specifico, non solo di consolatrici di eroi e di custodi del focolare domestico, la cui cura era costituita di economia e preghiera, nella migliore, o peggiore se si vuole, tradizione dell'epica classica coniugata col misticismo cristiano, ma anche di propagatrici dell'ideale della civiltà. L'intera stampa femminile venne asservita a questo scopo: <33 alla militarizzazione della mascolinità, per riprendere un concetto di Mosse, <34 si aggiunse la nazionalizzazione della femminilità, in una specie di divisione dei valori: alla mascolinità eroica, militare, combattiva e violenta, forgiata nella tempesta d'acciaio della guerra, corrisponde una femminilità frugale, parsimoniosa e parca: i due aspetti si completano nella guerra e nel lavoro.
Come osserva Carlo Zaghi: "l'aver sollevato il sentimento più profondo del popolo italiano e identificato l'onore nazionale col riscatto della sua inferiorità coloniale, fu il successo più grande di Mussolini, il momento storico più alto toccato dal regime". <35
La guerra contro l'Etiopia ebbe un impatto immediato in tutto il mondo. A parte le reazioni diplomatiche, come le limitate sanzioni decise dalla Sdn, vasti settori dell'opinione pubblica fecero pressione sui propri governi perché reagissero contro il colonialismo fascista.
[...] Varie organizzazioni di afro-americani si mobilitarono in un fronte unico che coinvolgeva i gruppi del nascente nazionalismo nero, organizzazioni antifasciste e gruppi comunisti, come il Comitato provvisorio per la difesa dell'Etiopia, fondato ad Harlem nel febbraio del 1935. <36 Non solo, ma da New York a Kansas City, migliaia di volontari neri risposero agli appelli delle varie organizzazioni di partire per l'Etiopia e combattere contro gli italiani. In seguito alla repressione del governo Usa, che non voleva essere trascinato in una guerra con l'Italia fascista, la mobilitazione militare cessò, anche se non completamente. La Black Legion, ad esempio, dichiaro che i suoi 3000 militanti che si preparavano a partire per l'Etiopia avrebbero rinunciato alla cittadinanza americana per servire il “loro” paese. <37
Scrive “l'Unità” (s.d., ma 1935): I negri si arruolano volontari. Ad Harlem … è stata costituita una “Legione Nera”, la quale chiama i negri ad arruolarsi per difendere l'ultimo paese indipendente dell'Africa, l'Abissinia. … Il negro Walter Davis, del Texas, ha inviato un telegramma all'imperatore dell'Abissinia, offrendogli un aiuto di 6 mila volontari... <38
Non si mobilitarono solo i partiti socialisti e comunisti, i popoli coloniali o gli afro-americani, che vedevano nella causa etiope le ragioni della loro stessa causa, ma anche, per motivi diversi, strati di popolazione dei paesi imperialisti democratici. <39 Come scrive Procacci: "Si può dire anzi che fu proprio tra la tarda primavera e gli inizi dell'estate [1935, nota mia] che si venne diffondendo sempre più largamente la sensazione che la controversia in atto tra Italia e Etiopia aveva cessato di essere una questione marginale per assumere invece i caratteri di un test dal quale dipendeva in larga misura il mantenimento della pace. (…) Nasceva insomma un'opinione pubblica pacifista e antifascista". <40
Anche se, come ricorda Procacci, questo fenomeno riguardò in maniera più evidente l'Inghilterra, soprattutto per la presenza di un forte Partito laburista e per la coesistenza di altri fattori psicologici e politici, <41 e la Francia, si diffuse in tutti i paesi dell'Europa continentale, compresi i Balcani, al di fuori, per ovvie ragioni, della Germania nazista. <42
In Italia la mobilitazione toccò essenzialmente i partiti antifascisti in esilio.
Le principali organizzazioni antifasciste dell'emigrazione scorsero nell'avventura etiope un'occasione per sferrare un colpo mortale al regime mussoliniano. Si distingueva da questa impostazione il gruppo di “Giustizia e libertà”, animato da Carlo Rosselli, per il quale si trattava di una posizione attendista.
Per Gl, non si doveva aspettare la disfatta del fascismo in Etiopia, ma organizzare subito un intervento politico propagandistico in Italia nel tentativo di rovesciare il regime. <43 In realtà, con questa polemica, Gl puntava a spezzare l'isolamento dalle altre formazioni antifasciste, e in particolare dai partiti comunista e socialista che avevano istituito un rapporto privilegiato in seguito alla svolta del VII congresso della Terza internazionale.
Il Pci e il Psi, legati ormai da un patto d'azione, organizzarono i giorni 12 e 13 ottobre del 1935, il Congresso di Bruxelles, al quale parteciparono varie organizzazioni antifasciste, tranne Gl.
I relatori principali furono il socialista Pietro Nenni, che tenne il discorso introduttivo, e Ruggero Grieco, dirigente del Pci. <44
Il discorso di Nenni e la sua stessa presenza al Congresso smentirono in parte la posizione dell'Internazionale socialista, che era riluttante ad intraprendere azioni comuni con l'Internazionale comunista; il leader socialista si pronunciò per l'unità d'azione con i comunisti, anche in vista di una crisi del regime che si riteneva imminente e che avrebbe richiesto un senso di responsabilità delle organizzazioni antifasciste, pur senza l'illusione della maturità di una crisi rivoluzionaria.
Ruggero Grieco si spinse anche oltre le dichiarazioni di Nenni, ipotizzando persino la possibilità di un governo “antifascista” che “difenda le libertà popolari”, presumibilmente di ampia coalizione. <45
Il VII congresso dell'Internazionale comunista si era occupato della guerra italo-abissina nell'ambito del dibattito sul fascismo e i pericoli di guerra, registrando l'intervento di Togliatti sull'avventura africana il 13 e 14 agosto 1935. <46  Nel suo rapporto, Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane come preludio alla caduta del regime: "se il Negus d'Abissinia, spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camicie nere, nessuno gli rimprovererà di essere 'arretrato'. Il popolo abissino è l'alleato del proletariato italiano contro il fascismo e noi gli esprimiamo la nostra simpatia". <47
La stessa posizione venne espressa, in maniera più articolata dopo lo scoppio della guerra, il 15 novembre, in un articolo apparso sul “Bolśevik”, <48 nel quale si ribadisce che "la sconfitta dell'imperialismo italiano sarà il prologo della caduta del fascismo: il fascismo non può rischiare uno smacco. Uno smacco può essere l'inizio della sua fine". <49
E, nella misura delle sue possibilità, tenuto conto delle esigenze della clandestinità, il Pci si adoperò per rendere questo sviluppo effettivo e di opporsi attivamente alle operazioni belliche, non limitandosi a una posizione massimalista e attendista come accusato da Gl. <50  Pur muovendosi entro un quadro di collaborazione di classe internazionale determinato dalla svolta del VII congresso, <51 la politica del Pci si distinse sia dalle combinazioni diplomatiche dell'Urss che dal puro e semplice propagandismo.
Fin dal luglio del 1935, quindi tre mesi prima dell'aggressione italiana, Sergio (Giulio Cerreti) proponeva di recarsi in Egitto, ed eventualmente in Etiopia, ad organizzare la resistenza contro la guerra, <52 per conto del Comitato mondiale contro la guerra e il fascismo, un organismo che lo stesso Cerreti aveva collaborato a fondare, i cui esponenti principali erano Henry Barbusse e Romain Rolland. Al momento il progetto non ebbe seguito, ma gettò le basi di una discussione che avrebbe avuto dei risvolti operativi molto concreti.
Tra il 1934 e il 1935 il Pci intensificò i tentativi di penetrazione in Italia, in particolare la propaganda tra gli operai industriali e nei sindacati fascisti, diretta a sollevare rivendicazioni sulle condizioni di lavoro, i salari, il carovita, approfittando di ogni possibilità legale permessa dal regime. Vennero moltiplicati gli sforzi per introdurre la stampa in Italia e organizzare le proteste, i cui echi si trovano nelle pagine dell'“Unità”, “lo Stato operaio” o “Azione popolare”. In particolare venne curato l'intervento nell'esercito allo scopo di dare voce alle pur minime manifestazioni di malcontento contro la partenza per l'Africa o dei soldati di stanza in Aoi, di cui la stampa comunista diventa megafono. Ogni protesta in una caserma, un canto antimilitarista, gli insulti ad ufficiali particolarmente crudeli, la denuncia delle malattie in Abissinia, le proteste per il rancio, sono tutte occasioni che dimostrano, per la stampa comunista, l'impopolarità della guerra tra i soldati <53.
Così, ad esempio, “L'Unità” n. 1, 1936, sotto il titolo "Lettere dalle caserme e dall'Africa Orientale", dedica una pagina intera alle manifestazioni di dissenso tra le truppe. Erano del resto già vari anni che il Pci cercava di penetrare nell'esercito con suoi organi di stampa, prima “Caserma”, che venne chiuso alla fine del 1934, dopo dieci anni di pubblicazioni, e poi “Grigioverde”, fondato allo scopo di rendere più efficace e concreta la mobilitazione dei soldati contro la guerra e la terribile disciplina militare. In un lungo rapporto di dieci pagine del 28 maggio 1935, Neri (Luigi Longo) delinea un piano molto dettagliato d'intervento nell'esercito. <54 Dopo aver chiarito le ragioni che hanno condotto alla chiusura di “Caserma”, Longo spiega: “L'uscita di “Grigioverde” risponde a questa esigenza… Bisogna accentuare il carattere legale e popolare del giornale che deve diventare sempre più come un organo di soldati, di marinai, di avieri, di militi”.
Infine, il progetto di intervenire tra le truppe italiane destinate in Etiopia si concretizzò nella missione di Velio Spano in Egitto, incaricato dal comitato antifascista eletto al congresso di Bruxelles: Spano arriva in Egitto nel novembre 1935, prende contatti con settori antitaliani della borghesia egiziana e con alcuni connazionali sensibili alla propaganda antifascista. <55 Anche se la missione era stata preparata accuratamente nei mesi precedenti, Spano ne lamenta la disorganizzazione in una lettera al Comitato internazionale del 14 gennaio 1936 <56 e, tuttavia, nei limiti delle forze che si sono potute impiegare, la missione non è priva di qualche successo.
Spano riporta del clamore suscitato a Porto Said della propaganda antifascista e contro la guerra. <57 In una serie di articoli apparsi su “Stato operaio” nel 1938, Paolo Tedeschi (pseudonimo di Spano) sottolinea la polarizzazione tra le truppe italiane in transito per i porti egiziani, divise tra entusiasti alla guerra e riluttanti e sensibili alla propaganda antimilitarista <58 e descrive l'impatto che la distribuzione di volantini ha sui soldati imbarcati sui piroscafi in transito per il Canale di Suez. <59
Che l'azione di Spano avesse avuto un certo successo è testimoniato anche dalla preoccupazione suscitata nell'ambasciata italiana al Cairo. <60
L'ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba, nel maggio del 1936, cambia la prospettiva propagandistica del Pci che, pur riconoscendo che l'occupazione della capitale etiope non avrebbe posto fine alle operazioni militari, deve tuttavia fare i conti con la realtà di un regime che, proprio in occasione della proclamazione dell'impero, ottiene il massimo consenso popolare. <61
Nella riunione dell'Ufficio politico l'8 maggio 1936, <62 al punto sulla questione abissina, l'intervento di Longo esprime chiaramente la delusione e il disorientamento del gruppo dirigente comunista che aveva puntato sulla disfatta italiana. I fatti impongono una rettifica nella propaganda e nelle parole d'ordine, ma ne deriva anche una rettifica dell'analisi. Le prime avvisaglie di questo mutamento di prospettiva si rivelano in un articolo dello “Stato operaio”, "Dopo Addis Abeba", del maggio 1936, scritto a caldo dopo la proclamazione dell'impero, ma è il manifesto programmatico "Per la salvezza dell'Italia:riconciliazione del popolo italiano" <63 che delinea in maniera più netta questo mutamento.
Già Spano, rientrato clandestinamente in Italia dopo la missione egiziana, aveva osservato “la nostra giusta preoccupazione di essere una corrente, una grande corrente di opposizione nel fascismo, deve essere oggi non più soltanto in primo piano nella nostra politica, ma forse addirittura il centro della nostra politica...” <64
Il manifesto ha come suo nucleo programmatico l'appello ai fascisti perché lottino insieme coi comunisti per la realizzazione del programma fascista del 1919, “che è un programma di libertà”. <65  Ed è firmato, a ribadirne la solennità, dai veri nomi e cognomi dei dirigenti del Pci.
Come nota Paolo Spriano, quest'appello suscita polemiche, recriminazioni e critiche da Mosca che si faranno via via più severe, ed è possibile che molti dei firmatari non fossero stati nemmeno interpellati. <66 L'appello cadeva poi in una fase particolarmente critica, all'inizio della guerra civile spagnola, che vedrà di nuovo, in uno scontro più drammatico, fascisti e antifascisti italiani combattersi, questa volta sulle barricate e le trincee di Spagna. Tra i sottoscrittori del manifesto, infatti, ritroviamo dirigenti comunisti che sono in procinto di partire per la penisola iberica in soccorso alla repubblica, che difficilmente avrebbero aderito a un appello “ai fratelli in camicia nera”. A questo seguiva un'apertura alla Chiesa cattolica, nell'autunno del 1936, in piena guerra civile spagnola dove la stragrande maggioranza delle gerarchie ecclesiastiche era apertamente schierata dalla parte del franchismo. <67
Non è possibile qui riprendere le polemiche che il Partito socialista e Giustizia e libertà scatenarono contro il manifesto "Per la salvezza dell'Italia"; <68 è necessario però ricordare che le critiche che giunsero da Mosca, oltre allo scoppio della guerra civile spagnola, determinarono infine la decisione dell'Ufficio politico di “ritirare la parola della conciliazione nazionale per dare maggior chiarezza e vigore alla politica di unione del popolo”. <69
Questo episodio avrà però delle ripercussioni negli anni a venire e determinerà, in parte, la mutazione della formazione del gruppo dirigente del Pci.
Come ha notato Simona Colarizi, “L'intervento dei volontari antifascisti [nella guerra civile spagnola] imbarazza non poco il regime, anche perché, per la prima volta dopo molti anni, i fuorusciti ritornano inevitabilmente alla ribalta della cronaca e per di più avvolti in un'aureola di eroismo guerriero”. <70 Ed è nel fuoco della guerra civile spagnola, nell'entusiasmo per la vittoria repubblicana di Guadalajara, che comincia a delinearsi l'idea di inviare alcuni membri delle Brigate internazionali in soccorso alla resistenza etiope, <71 viste anche le difficoltà che sta incontrando l'esercito regolare del Negus, i cui resti comandati da ras Destà, sono stati distrutti dall'esercito italiano. La missione venne decisa infine in una riunione di segreteria l'8 dicembre 1938, nella quale Nicoletti (Giuseppe di Vittorio), presentò la proposta di inviare un gruppo di compagni in Etiopia al seguito del “compagno che parte”. <72 Prende la parola il compagno in questione che espone il suo piano di lavoro e, nello stesso mese di dicembre, Ilio Barontini si reca così in Etiopia accompagnato dal segretario di Hailé Selassié, Lorenzo Taezaz, il quale però si ferma in Egitto, e fornito di credenziali del Negus stilate su fazzoletti di seta. Nonostante gli evidenti problemi di comunicazione, il 6 febbraio 1939 Barontini riesce a far avere sue notizie al Partito, in una lettera certamente scritta da una località etiope, ma spedita da Khartoum il 22 marzo, nella quale esalta le virtù militari dei resistenti e l'accoglienza della popolazione, soprattutto dei contadini molto attenti e interessati alle tecniche militari, ma evidenzia la disastrosa situazione degli armamenti, la carenza di munizioni e l'eterogeneità delle armi, fucili di marche diverse, mitragliatrici senza cartucce. Osserva comunque “Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia …” <73
In una lettera, datata 1 aprile 1939, indirizzata a Tuti (Rigoletto Martini), Jacopo (Giuseppe Berti) esprime la soddisfazione del Partito per la missione, nota che Barontini è dirigente riconosciuto dalla resistenza, e l'unico contatto del Negus con i suoi uomini rimasti in Etiopia, ma lamenta gli scarsi mezzi a disposizione. <74
Nel frattempo, nel marzo del 1939 sono partiti per l'Etiopia anche altri due combattenti di Spagna, Rolla e Ukmar. <75 L'impresa, che vide la collaborazione diplomatica di Francia e Inghilterra, coinvolse parimenti il colonnello francese Paul Robert Monnier, che perì nel novembre del 1939 in seguito a un attacco cardiaco nel corso di una missione di rifornimento.
L'obiettivo della spedizione era duplice, politico e militare. Così la descrive Ukmar: "Si doveva riuscire a convincere gli etiopi ad abbandonare l'organizzazione di grosse bande di mille-duemila uomini di cui solo una parte armati di fucili - tali formazioni erano facilmente reperite e massacrate - e costituire gruppi più piccoli e mobili. Si doveva cercare di mantenere i territori liberati… <76 ma soprattutto, in un contesto caratterizzato dalla continua rivalità tra tribù e in una regione, il Goggiam, governata da ras tradizionalmente ribelli all'autorità del Negus e in perenne conflitto tra di loro, dovevamo mantenere il contatto con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare conflitti armati tra le varie formazioni, fare quanto possibile per portare pace tra i gruppi armati e volgere ogni sforzo contro l'esercito di occupazione". <77
A questi si aggiungeva anche un altro scopo: la presenza di europei tra le file della resistenza etiope doveva contribuire a demoralizzare le truppe italiane e, insieme con la collaborazione di Francia e Inghilterra, dimostrare l'internazionalizzazione del conflitto.
Nel frattempo si intensifica l'attività di propaganda rivolta agli etiopi e alle truppe italiane. I fuorusciti italiani pubblicano un foglio settimanale, “La voce degli etiopi”, in amarico e italiano, <78 e il risultato politico della missione trova il suo riflesso in alcuni articoli pubblicati in “Lo Stato operaio” e “La voce degli italiani”. Di notevole rilevanza le conclusioni cui giunge Di Vittorio nell'articolo "La lotta del popolo etiopico ed i doveri del proletariato italiano", chiaramente ispirato da Barontini: "Il popolo etiopico, già in enorme ritardo sull'evoluzione storica, non possedeva ancora una coscienza nazionale, quando venne proditoriamente aggredito dal governo fascista. Uno Stato etiopico non esisteva. La società feudale etiopica era dominata da ras e sotto-ras in lotta fra di loro. (…) Il 'miracolo' che… si è già prodotto in buona parte, è questo: che sotto l'oppressione terroristica e sanguinaria del fascismo italiano il popolo etiopico sta forgiandosi una coscienza nazionale… Non si tratta, dunque, di una rivolta episodica, ma d'una rivoluzione popolare nazionale contro l'oppressore straniero. (…) dei capi che si erano resi complici dell'oppressore o vi si erano sottomessi, oggi si battono uniti e da eroi, non più per il potere o il predominio di questo o quel ras, ma per l'indipendenza dell'Etiopia". <79
Non fa parte degli scopi del presente articolo, ma non mi sembra superfluo osservare che le conclusioni cui giungevano Barontini e Di Vittorio esprimono un'opinione oggi diffusa in ambito storiografico: che la guerra contro l'Italia abbia accelerato il processo di unità nazionale dell'Etiopia, che le riforme dei primi anni di governo di Hailé Selassié avevano appena accennato nel loro tentativo di modernizzazione e di uscita dal particolarismo feudale. <80
La missione ebbe termine nel marzo del 1940 per varie ragioni, in primo luogo per il mutamento dello scenario internazionale determinato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. E tuttavia non è la sola ragione: si scopre che Monnier era un agente dell'Intelligence service inglese, col quale aveva costantemente mantenuto i contatti, e che aveva sempre tenuto le redini della missione <81 e nei primi mesi del 1940, l'Inghilterra, nel tentativo di impedire l'ingresso in guerra dell'Italia a fianco di Hitler, aveva deciso di tagliare i finanziamenti e il sostegno alla resistenza etiope, inclusa la missione di Barontini. <82
[NOTE]
27 Idem, p. 621. Per altro v. anche, per le riserve di Dino Grandi, Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 325.
28 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, op. cit. p. 327. Mussolini era ben consapevole che né l'Inghilterra né la Francia avrebbero rischiato la guerra contro l'Italia sulla questione etiope; v. Ibidem, p. 326-327.
29 Il 27 agosto 1935, in un discorso alle 2000 infermiere cattoliche in visita a Castelgandolfo, Pio XI si oppose apertamente all'imminente avventura africana, definendola “un guerre injuste”, v. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d'Etiopia, Laterza, Roma - Bari, 2010, p. 44
30 Ibidem, p. 67 - 135; S. Colarizi, cit., p. 199; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 333.
31 S. Colarizi, cit., p. 200.
32 Lettera da Roma. Piccola borghesia ed intellettuali di fronte alla guerra, in “Lo Stato operaio”, febbraio 1936, p. 110.
33 V. Mirella Mingardo, “Pace”, “Lavoro”, “Civiltà”. Propaganda e consenso nella stampa periodica durante la guerra d'Etiopia, in Caccia, Patrizia e Mingardo, Mirella (a cura), Ti saluto e vado in Abissinia, Viennepierre, Milano, 1998.
34 L. Benadusi e G. Caravale (a cura), Sulle orme di George L. Mosse. Interpretazioni e fortuna dell'opera di un grande storico, Carocci, Roma, 2012, p. 69.
35 C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973. A conclusione della prima fase della guerra, l'8 maggio 1936, “Il popolo d'Italia” poteva sostenere che la guerra era stata “impresa di popolo, di tutte le classi e di tutti i ceti, di tutte le categorie e di tutte le gerarchie. Dalla Dinastia al clero, dalla gioventù delle Università alle moltitudini dei campi e delle officine, tutta la Nazione era spiritualmente impegnata nell'impresa, 'con trepida e inesorabile decisione'”, in I. Granata, Milano e la proclamazione dell'Impero (Maggio 1936): tra “regime” e “patria”, in P. Caccia e M. Mingardo, Ti saluto e vado in Abissinia, cit., p. 42.
36 In particolare, la mobilitazione degli afro-americani e stata oggetto di vari studi, dei quali ricordiamo solo l'opera piu significativa: William R. Scott, The Sons of Sheba’s Race: African Americans and the Italo-American War 1935-1941. Bloomington: Indiana University Press, 1993. V. però anche N. Venturini, Neri ed italiani ad Harlem. Gli anni trenta e la guerra d'Etiopia, Lavoro, Roma, 1991; Antifascist dieselpunk II - The Italo-Abyssinian War, 26 aprile 2012, disponibile online su: pdjeliclark.files.wordpress.com. Trasformatosi in seguito nell'organizzazione United Aid for Ethiopia, il Comitato provvisorio ottenne il riconoscimento ufficiale del governo imperiale all'Estero. v. opuscolo dell'associazione, War in Ethiopia, New York City, 1936.
37 William R. Scott, Black Nationalism and the Italo-Ethiopian Conflict, “The Journal of Negro History”, 63, n. 2, 1978, p. 118-134.
38 Conservato all'Acs, Fondo ministero dell'interno - Direzione generale pubblica sicurezza - Divisione affari generali e riservati - Stampa sovversiva in Italia - Busta 77/491.
39 Per la mobilitazione dei movimenti anticolonialisti contro l'aggressione italiana e la reazione dell'opinione pubblica all'estero, oltre ai libri di Giuliano Procacci, Dalla parte dell'Etiopia, cit., e Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Editori riuniti, Roma, 1978, vedi Denise Eeckaute e Michel Perret (ed.) La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, Inalco, Paris, 1986.
40 G. Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, cit. p. 62.
41 Ibidem; per un approfondimento delle reazioni dell'opinione pubblica inglese v. anche D. Waley, British Public Opinion and the Abyssinian war. 1935-1936, Maurice Temples Smith, London 1974
42 Nel volume collettaneo La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, cit., v. i saggi di S. Rubenson, sulla Svezia; di J. Gergely e L. Nyeki, per l'Ungheria; D. Eeckaute, per l'Europa dell'est; J. R. Bojovic, per la Jugoslavia; ma anche, relativamente ai paesi extraeuropei, M. Kovacs, per il Canada; J. C. Ralema per il Madagascar e S. A. Nguyen Dac, per il Vietnam. Una rassegna storiografica dell'atteggiamento dei paesi balcanici è fornita infine da A. Kuzmanova. Sulla reazione dell'opinione pubblica francese v. F. D. Laurens, France and the Italo-Ethiopian crisis 1935-1936, Mouton, Paris - Le Hague, 1967, anche Max Gallo: L'affaire d'Ethiopie, Editions du Centurion, Paris, 1967.
43 Per una sintesi delle posizioni di Rosselli e di Gl, v. l'articolo di Magrini, Rosselli e la guerra d'Etiopia, in Quaderni italiani n. 2, agosto 1942; ma anche: Carlo Rosselli, Opere scelte. Scritti dall'esilio, vol. II, Dallo scioglimento della concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), Einaudi, Torino, 1992. Anche Nicola Tranfaglia, Una scelta di campo necessaria. Carlo Rosselli e Gl di fronte a Hitler e all'espansione dei fascismi, in “Studi storici”, n. 3, 1995.
44 Per una sintesi dei lavori del Congresso v. “Il Nuovo Avanti”, 19 ottobre 1935; il rapporto di L. Gallo (Luigi Longo), in “Stato operaio”, ottobre 1935, che riporta anche l'intervento di Grieco; l'articolo di E. Modigliani in “Informations internationales”, n. 36.
45 R. Grieco, I compiti del popolo italiano nella lotta contro la guerra, “Lo Stato Operaio”, cit. p. 625-634.
46 Il rapporto di Togliatti al congresso dell'Ic venne pubblicato sulla “Rundschau” del 2 ottobre 1935; una sintesi si trova nello “Stato operaio” n. 10, 1935.
47 “So” n. 10, 1935, p. 598.
48 Ora in Palmiro Togliatti, Opere, vol. IV.1, Editori riuniti, Roma, 1979, p. 41-57.
49 ibidem, p. 53.
50 Lettera di Gl al Pci, riportata in Archivio del partito comunista italiano (d'ora in poi Apc), 513 - 1286, nella quale la formazione di Rosselli accusa il Partito comunista di non comprendere, con i suoi slogan, la psicologia delle masse che sostenevano, in Italia, l'occupazione dell'Etiopia.
51 Si veda per esempio l'atteggiamento nei confronti delle sanzioni, v. articolo "Le sanzioni sono la pace e la salvezza del popolo italiano", in “La difesa”, n. 14, ottobre 1935.
52 L'intero rapporto di Cerreti, e in Apc 513 - 1 - 1318, p. 86 ss., ma v. anche appunto manoscritto senza firma, probabilmente di Longo (Terra), del 12 giugno 1935, in Apc 513 - 1 - 1283, p. 67, che chiede di “inviare qualcuno al più presto”.
53 Questa e l'indicazione della Segreteria del Pc, che, in un'osservazione all'”Unità” n. 10 del 1935, raccomanda di “utilizzare OGNI malcontento che viene creato dalla situazione di guerra” (maiuscolo nell'originale), in Apc 513-1283, p. 135.
54 Apc, 513 - 1 - 1288, p. 2-11.
55 A. Mattone, Velio Spano: vita di un rivoluzionario di professione, Della Torre, Cagliari, 1978, p. 24.
56 In Apc 513 - 1 - 1393, p. 1.
57 Ibidem, p. 3.
58 Gli articoli, dal titolo "Esercito e milizia nella guerra d'Etiopia", sono apparsi nei numeri 1, 2, 4 e 7 del 1938.
59 Idem, n. 2, p. 27.
60 Telespresso del Consolato di Porto Said n. 2341/312, in Archivio storico Ministero affari esteri, Busta “Ambasciata del Cairo”, A63, 294/2.
61 v. S. Colarizi, L'opinione degli italiani sotto il regime. 1929–1943, cit.; a p. 206–207 riporta alcuni esempi di note fiduciarie che testimoniano la demoralizzazione dell'antifascismo di fronte alla conquista di Addis Abeba.
62 Apc 513 - 1 - 1358, p. 11 ss.
63 “Lo Stato operaio”. n. 8, agosto 1936.
64 Rapporto di un viaggio in Italia, Apc 513 - 1 - 1385, citato in A. Mattone, Velio Spano, cit. p. 40, sott. nell'originale.
65 Ibidem, p. 524; anche S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948, Rizzoli, 1980, Milano, p. 46 ss.
66 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano.
V. 3. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino, 1970, p. 65-67.
67 I comunisti ai cattolici italiani. Dichiarazione del Cc del Pci, “Lo Stato Operaio”, 8 ottobre 1936.
68 Su questo aspetto v. anche Bruno Grieco, Un partito non stalinista. Pci 1936: “Appello ai fratelli in camicia nera”, Marsilio, Padova, 2004, e Giorgio Amendola, Storia del Partito comunista italiano. 1921-1943, Editori riuniti, Roma, 1978.
69 Verbale dell'Ufficio politico del 17 febbraio 1937, in Apc 513 - 1 - 1432, p. 47; è anche impossibile, in questa sede, esaminare in dettaglio il ruolo di Togliatti che, detto in estrema sintesi, si è trovato a dover sacrificare Grieco, principale dirigente del Pci in Francia ed estensore materiale dell'appello, per salvaguardare il Partito dalla liquidazione, che aveva riguardato il Pc polacco, i dirigenti ungheresi e jugoslavi e Bela Kun in Ungheria.
70 S. Colarizi, cit., p. 232.
71 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, “Rinascita”, 19, 7 maggio 1966, p. 18
72 Apc, 513 - 1 - 1494.
73 Apc 513 - 1 - 1498, p. 27.
74 Apc 513 - 1 - 1494, p. 24-25.
75 G. Pajetta, in Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano, 1983, p. 247-248, rivela dell'esistenza di un diario di Barontini, mai ritrovato; di Ukmar resta la testimonianza resa a Cesare Colombo e pubblicata da B. Anatra in “Rinascita” n. 19 del 17 gennaio 1966, cit. pagine 18-19. Di notevole importanza il libro della figlia di Barontini, Era, in collaborazione con Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Nuova Fortezza, Livorno 1988.
76 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, cit. p. 19.
77 ibidem.
78 Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, in “Studi piacentini”, n. 35, 2005, p. 85 ss. Alle pagine 88-89 Dominioni ristampa anche due esemplari del foglio ciclostilato. V. anche, dello stesso autore, Lo sfascio dell'impero, cit. p. 292.
79 “Lo Stato Operaio”, n. 12, 1939, p. 277.
80 Cosi esempio Teshale Tibebu, The Making of Modern Ethiopia: 1896-1974, Red Sea Press, Lawrenceville, 1995.
81 Barontini, Era, Marchi, Vittorio , Dario. Ilio Barontini, cit. p. 197.
82 Cablogramma del quartier generale inglese al Cairo, del 25 settembre 1939, gentilmente fornito da Sandi Volk.
Gino Candreva, Nazionalismo e comunismo di fronte alla Guerra d'Etiopia in História: Debates e Tendências, vol. 13, núm. 1, enero-junio, 2013, pp. 150-166, Universidade de Passo Fundo, Passo Fundo, Brasil

1938-39. Ilio Barontini in Etiopia nel Goggiam. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

1938-39. Ilio Barontini tra i partigiani etiopi. Da sinistra: Kebbedè, ufficiale; Ghila Gherghis, diplomatico; Paolus Getahoum Tesemma, capo del governo in esilio, un guerrigliero. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Qualche decennio fa il senatore del PCI Giancarlo Pajetta, intervistato sull'argomento, precisò che non fu mai trovato il diario del principale protagonista dell'impresa.
"…di quella vicenda e del fatto che là aveva trovato persino un comunista etiopico, ci disse di averne scritto nelle sue memorie. Doveva essere un racconto affascinante: dopo la sua morte cercammo il manoscritto per mezza Italia. Non lo trovammo e perciò restammo col dubbio che lo avesse scritto davvero. Si fece ogni sforzo ma nessuna delle donne che avrebbe potuto averlo avuto in consegna - e che, essendo assai numerose, rendevano la ricerca imbarazzante e non facile - fu in grado di farcelo ritrovare" (Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano 1983).
Il mistero riguarda la missione (o forse più di una, certamente un paio) che nel 1938 un piccolo gruppo di comunisti, di quelli che fondarono il partito in Italia, compirono nell'Etiopia soggetta al tallone di ferro delle truppe d'occupazione italiane.
Tra di essi Ilio Barontini, un comunista le cui gesta in tre continenti rimangono leggendarie, ma note solo quelle in Europa.
Ancora una decina di anni fa era possibile incontrare ad Addis Ababa, presso il cimitero dei reduci a ridosso della chiesa mausoleo consacrata alle spoglie di Hailè Selassie, proprio sulla collina alle spalle del Ghebbi (palazzo) imperiale che fu di Menelik, gli ultimi reduci ottantenni-novantenni arbagnuocc che cacciarono i fascisti italiani dalla loro patria.
Ad un giornalista italiano uno di questi fieri e poverissimi vecchietti, che amavano stazionare presso il loro circolo di reduci indossando sempre l'uniforme color kaki della guerra italo-etiope, fece questa dichiarazione: "sì… c'era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki.
«Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c'era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c'era l'imboscata». «Aveva gli occhi folli» narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. "Paulus" l'imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l'uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus…" (Paolo Rumiz, La Domenica di Repubblica, 30 aprile 2006)
[...] Fabio Baldassarri che recentemente ha curato una biografia di Ilio Barontini servendosi anche di testimonianze di compagni livornesi, cioè concittadini di Barontini che avevano appreso notizie sul suo conto dal medesimo protagonista delle stesse, parla soltanto di Paulus ovvero pertanto solo di Barontini che, nell'approssimarsi della data della partenza visse un periodo di isolamento in un'abitazione francese al fine di farsi crescere la barba e operare qualche altro cambiamento di connotati. (Fabio Baldassarri, Ilio Barontini un garibaldino del '900, Teti editore)
Intanto la polizia fascista e i servizi segreti di mezzo mondo già da tempo erano sulle tracce di un tal Paul Langrois del quale si comincia a paventare la presenza in Etiopia. Per il generale della PAI (Polizia dell'Africa Italiana) Marraffa è Paolo De Bargili, ma in realtà ancora oggi la sua vera identità è avvolta dal mistero. Per il dirigente comunista Anton Ukmar, da una testimonianza del dopoguerra, sarebbe invece il dirigente comunista Velio Spano ma successivamente sarà smentito da Giorgio Amendola e dalla stessa moglie di Spano, che pur ammettendo la presenza di Spano in Egitto in quel periodo nega che egli sia stato anche in Etiopia. In effetti Velio Spano era stato in Egitto, ma nel 1935, e della sua azione, o tentativo di azione, se ne ha traccia presso l'Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASDMAE), Ministero dell'Africa. Da un'informativa di polizia del Tenente Colonnello Princivalle al Governo dell'Eritrea (Asmara 19 febbraio 1935), si apprende che il 27 dicembre del '35 furono trovati a Suez dentro a tre scatole di tabacco, alcuni volantini antifascisti in italiano.
Era un primo tentativo di azioni di propaganda del PCdI rivolta alle truppe dell'esercito italiano che passavano da Suez per dirigersi verso il porto di Massaua, nella colonia Eritrea, per dare inizio all'invasione dell'Etiopia.
Per altri Paul Langrois sarebbe una delle tante identità assunte dallo stesso Barontini. La confusione su questo punto è massima! E questo non è casuale.
Non è casuale che anche tra i dirigenti comunisti le informazioni e le testimonianze su quei fatti, che rimanevano alla fine del conflitto, fossero episodiche e spesso contraddittorie. Ciò dipende dalla formidabile struttura leninista clandestina del partito, forgiato in periodo fascista nella clandestinità e come "struttura d'avanguardia del proletariato composta da rivoluzionari di professione", che non consente la conoscenza di fatti ed azioni se non ai componenti delle cellule strettamente interessate ed a pochissimi altri nelle strutture di collegamento che, tuttavia, non conoscono, eccetto un contatto, gli altri componenti delle cellule stesse.
I due comunisti prendono contatti con i servizi segreti britannici e, con gli emissari di Hailè Selassiè. Partiti dalla Francia attraversano l'Egitto e il Sudan per trovarsi nel dicembre del 1938 in territorio etiope, nel Goggiam, nei pressi del lago Tana, dove si pongono al seguito del degiac (generale)Mangascià Giamberiè e dove le azioni della resistenza etiope sono più numerose e il suo controllo sulle foreste e le campagne maggiore.
Una prima lettere di Barontini giunge attraverso Khartoum : "…la mia salute è buona, nonostante la vita sia dura, dormire sulla terra, mangiare quando si trova, mangiare quello che c'è, bisogna avere uno stomaco di struzzo. Bisogna avere un fisico molto resistente. Al momento sono decisamente in forze, ci sono degli indigeni che nella zona terribile per la malaria hanno preso la febbre; al contrario io sto bene. È 26 giorni che passo da villaggio a villaggio, ho visitato fino ad ora tre grandi regioni. L'unico sistema di trasporto le nostre gambe, salire e scendere continuamente, di giorno il termometro segna 30-35 gradi all'ombra, la notte scende a 8-10. La situazione è buona. I contadini mi hanno fatto le migliori manifestazioni di amicizia, di rispetto, di considerazione, ho fatto e faccio tutti i giorni delle riunioni dando delle istruzioni, dei consigli, istruzioni militari, modo di combattimento, sul problema della salute, etc. Sono sorpreso poiché non ho mai trovato un pubblico più attento che qui, questi contadini sono molto intelligenti, imparano bene e dopo i miei discorsi manifestano per me una grande venerazione. Il documento del Negus è veramente formidabile. Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia, ci si rinforza per sviluppare un miglior lavoro, per un lavoro più intensivo. Qui ci sono molti uomini disposti a combattere, ma non ci sono armi a sufficienza per armare tutti gli uomini disponibili. Ogni paese ha il suo armamento; ho visto centinaia e centinaia di fucili, ma ho constatato che provengono da diverse marche, questo fatto complica la formazione di unità omogenee. [...] I combattenti hanno una buona conoscenza per utilizzare le mitragliatrici; ma non ci sono munizioni. [...] Domani andiamo al combattimento, gli indigeni sono formidabili per il combattimento, ho visto un contadino donare una vacca per avere due cartucce per la sua arma. I preti sono sempre dalla parte della popolazione, ci sono dei preti veramente meravigliosi, sono in buoni rapporti con loro. Qui ci sono delle camicie nere che ti seguono non appena gli fai vedere un po' di soldi. Al momento ne ho una accanto a me che mi fa divertire. (lettera di Ilio Barontìni, Kartoum 6 febbraio 1939, inviata il 22 marzo, conservata presso il patrimonio archivistico dell'Istituto Granisci, tradotta dal francese e riportata da Matteo Dominioni in: Lo sfascio dell'Impero, Laterza 2008).
Una seconda lettera viene scritta il 9 maggio ed è indirizzata da "Jacopo" a "Tuti": …sono cinque mesi che il nostro compagno è in sede riconosciuto ufficialmente in base alle credenziali di ampia fiducia del Negus ed egli ormai ha preso la direzione militare di tutto quanto c'è di attivo e di combattivo laggiù e si tratta di parecchie decine di migliaia di uomini" (sempre da "Matteo Dominioni, op.cit.).
Nello schieramento opposto, quello delle forze d'occupazione italiana presso il comando di Gondar abbiamo una testimonianza della situazione di conflitto permanente esistente nella regione.
Curzio Malaparte, incaricato di un reportage giornalistico dal Corriere della Sera, con lo scopo di rassicurare la popolazione italiana a proposito della propaganda inglese antiitaliana, percorrerà nei primi mesi del 1939, al seguito di un contingente militare italiano, la rotta di rifornimento Massaua, Asmara, Adua, Bahir Dar, Addis Ababa. Nell'articolo intitolato "Passaggio di armati per le alte terre dell'Uoranà" non può fare a meno di descrivere, per quanto con toni rassicuranti e dissimulati, un attacco degli sciftà (briganti) e di un territorio del quale gli era stato sconsigliato il transito ( articoli adesso ripubblicati in "Curzio Malaparte, Viaggio in Etiopia ed altri scritti africani, Vallecchi 2006)
Sin da subito i due comunisti assumono le mansioni di istruttori militari e consiglieri.
Del "misterioso" Paul Langrois ci lascia una testimonianza il prigioniero italiano, capitano Bertoja, tramite Vittorio Longhi che era stato inviato nella regione del Goggiam per trattare la sua liberazione. Bertoja era stato precedentemente catturato dallo stesso degiac Mangascià ed ebbe modo di incontrare il presunto Langrois presso il villaggio di Fagutta e, naturalmente, considerandolo un traditore, lo descrive in maniera molto poco lusinghiera. Inoltre per Bertoja il compito che Langrois vuole portare a termine è quello di unificare l'azione delle tante bande di resistenti, spesso in conflitto reciproco, sotto un unico comando.
…"Sempre secondo Bertoja, Langrois è anche diventato il consigliere politico del piccolo gruppo di intellettuali che gravita intorno a Mangascia Giamberiè e che stampa alla macchia il settimanale ciclostilato <>. Ed ancora a lui il generale Marraffa attribuisce la paternità dei volantini che vengono diffusi in molte parti del Goggiam e che sono firmati da <>. Dice uno di questi manifestini: << ora l'Italia non ha più oro e argento; le banconote che vi danno non hanno più valore, sono come i marchi del 1918. Oh popolo d'Etiopia, attenzione! Non accettate le lire di carta. Gli italiani vi ingannano>>. (Angelo Del Boca, op.cit.).
Nella primavera del 1939 una seconda missione raggiunge gli stessi territori dell'Etiopia. Su questa si hanno maggiori ragguagli forniti da uno dei protagonisti, il comunista triestino Anton Ukmar, già combattente nelle brigate internazionali in Spagna e successivamente, nel '43 comandante della lotta partigiana in Liguria con il nome di battaglia di Miro. Testimonianze sulla figura di Ukmar e sulla sua impresa in Etiopia si hanno dalla sua stessa relazione pubblicata nel 1966 su Rinascita e dalle pubblicazioni del comandante partigiano G.B. Lazagna, oltrechè dalle edizioni dell'Anpi e in altri testi. Ukmar afferma che la missione gli fu affidata da Di Vittorio a Parigi. "La nostra missione consisteva in questo. Aiutare la popolazione etiopica nella mobilitazione contro l'aggressione colonialista e nella costituzione di un esercito partigiano; non si trattava di svolgere un lavoro di partito, né di presentarci come italiani ma semplicemente come membri delle Brigate Internazionali".
Insieme ad Ukmar fa parte della missione lo spezzino Bruno Rolla, già commissario politico della sezione clandestina del Partito a Palermo e combattente di Spagna nella 12a Brigata Garibaldi. Con loro ci sono il colonnello francese Paul Robert Mounier, del servizio d'informazione militare francese e simpatizzante della politica del Fronte Popolare, e Lorenzo Taezaz, uno dei più attivi collaboratori del Negus in esilio. Per Baldassarri, nella citata biografia di Barontini, Ukmar prenderebbe il nome di Johannes, Rolla quello di Petrus e Mounier quello di Andreas. La missione, sullo stesso percorso in territorio egiziano-sudanese sotto tutela delle truppe britanniche, presto raggiunge Ilio Barontini nel Goggiam. "…Ci mise al corrente della situazione e discutemmo insieme su da farsi: dovevamo riuscire a convincere gli etiopici ad abbandonare la struttura a grosse bande di 1000/2000 uomini, dei quali soltanto una parte armati di fucili, dato che queste formazioni erano lente nei movimenti e facilmente localizzabili; infatti venivano puntualmente scoperte e massacrate; essi avrebbero dovuto costituire gruppi più piccoli e mobili. Inoltre avremmo dovuto persuaderli a non uccidere più i prigionieri ma a disarmarli e lasciarli liberi…I guerriglieri etiopici avrebbero dovuto anche cercare di mantenere i territori liberati. Nostro compito sarebbe stato quello di mantenere i contatti con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare i conflitti fra le varie formazioni, in modo da unificare nella lotta contro l'esercito coloniale tutte le energie" (Rinascita, n. 19, 7 maggio 1966 riportato anche in "Angelo Del Boca, op.cit.).
Inoltre si attribuiva particolare importanza all'opera di propaganda presso la popolazione e presso i militari italiani. Tramite un ciclostile veniva dato alle stampe un foglio metà in italiano e metà in amarico dal nome "La voce degli etiopi" con tiratura settimanale che poi veniva diffuso, fra le truppe italiane, dalle donne, in quanto meno sospettabili, che contemporaneamente carpivano informazioni fondamentali per la guerriglia. E' certo inoltre che si tentò di costituire una sorta di governo "ribelle" affinchè cominciasse ad essere riconosciuto un contropotere nei territori interessati dalla guerriglia.
Per mettere in pratica questo programma Barontini, Ukmar, Rolla e Monnier intraprendono viaggi, spesso ognuno singolarmente per tutto il vasto territorio del nord Etiopia che va dall'Ermacciò, al Beghemeder, al sud del lago Tana, al Goggiam.
E' certo che Barontini fu raggiunto da Lorenzo Taezaz in agosto e svolse la propria azione presso il degiac Mangascià, Ukmar operò nella zona di Gondar, attorno al Lago Tana, nell'Alto Nilo Azzurro e nel Goggiam.
Ma fu un compito irto di pericoli sopratutto a causa delle bande di mercenari sguinzagliati alla loro ricerca da parte delle autorità militare italiane e dalla rissosità tra le varie bende di resistenti etiopi.
Inoltre Monnier muore improvvisamente a causa delle febbri malariche mentre si spostava nella zona di Harar, ad est nel territorio etiopico, per prendere contatti con altri nuclei di ribellione.
Stessa sorte rischia di toccare ad Ukmar, ammalatosi anch'egli, e a Rolla a causa di una infezione ad una ferita che rischiava di degenerare.
Ukmar intanto aveva fatto chiamare i compagni mettendoli al corrente del suo stato di pericolo: "…Dapprima Ukmar ricevette un po' di latte, poi più niente.
Vennero due stregoni. Bruciarono erbe aromatiche e, infine, visto che non ottenevano alcun risultato, lo misero fuori dal tucul per lasciarlo morire. Dopo un po' lo privarono delle armi e degli oggetti di qualche interesse e lo trasportarono all'esterno del villaggio per abbandonarlo sotto un albero. Era la morte certa, anche per opera degli animali, se in quel momento non fosse arrivato Ilio Barontini.
Era sera e Ilio sentì pronunciare il nome che gli abissini avevano affibbiato ad Ukmar: Oghen. Barontini scorse il compagno e si rese conto che era in condizioni disperate. Gli apri la bocca con la lama della baionetta e gli fece ingoiare del chinino; poi lo fece caricare su un cammello e si avviò verso il Goggiam. A Barontini, quando era arrivato nel villaggio, era stato detto che iI suo amico poteva considerarsi morto. Trasferito in un altro villaggio, Ukmar pote invece riaversi rapidamente grazie a qualche settimana di riposo e ad un po' di recupero nell'alimentazione.
Anche Rolla si ammalo di li a poco. Una ferita ad un dito suppurò facendogli gonfiare tutto il braccio. Ancora una volta Barontini accorse in tempo. Gli pratico delle inieizione sulla ferita, la ripulì ben bene e Rolla guarì. " (Fabio Baldassarri, op. cit.)
Al colmo della malasorte anche quel minimo di dotazioni tecniche del gruppo si esauriscono. La radio smette di funzionare pertanto non potendo più ricevere istruzioni Ukmar, Rolla e Barontini decidono di sospendere la missione e di rientrare in Europa preceduti da Lorenzo Taezaz e De Bargili (Paul Langrois ?!).
Nella decisione di porre fine alla missione senz'altro ebbe un ruolo fondamentale il cerchio poliziesco che si stava per chiudere attorno al gruppo.
Infatti già dal 1935 la polizia italiana teneva sotto controllo le intenzioni e i progetti degli esuli antifascisti a Parigi: "…In una riunione promossa a Parigi da «Giustizia e Libertà» fra rappresentanti antifascismo italiano si sono esaminati mezzi idonei svolgere propaganda negativa fra nostre truppe e particolarmente fra quelle destinate Africa Orientale. Tra l'altro si è pensato inviare in Abissinia, previ accordi con rappresentante diplomatico etiopico a Parigi, qualche elemento del movimento antifascista per svolgere azione sul posto, a mezzo stampati da distribuirsi fra nostre truppe dislocate frontiera Somalia ed Eritrea. Fondi necessario dovrebbero essere forniti dal Governo Etiopico cui si chiederebbero anche garanzie per nostri soldati che si lasciassero convincere propaganda a passare al nemico…" (ASDMAE, MA//7, posiz. 181/6, fase. 3, telegramma n. 2693 di Lessona a De Bono, Roma, 26 marzo 1935; telegramma n.3541 di Emilio De Bono al Governo di Mogadiscio, Asmara 31 marzo 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
E ancora: "…viene riferito da fonte confidenziale che si starebbe organizzando in Francia una legione di italiani fuorusciti, a spese delle Internazionali. Anche trattandosi di poche persone, essa potrebbe provocare incidenti gravi per i rapporti franco italiani in questo momento delicatissimo. Pare che la legione dovrebbe imbarcarsi - clandestinamente - per prendere servizio a favore del Negus in Abissinia. [...] È possibile del resto che le Internazionali mirino soltanto a fare scandalo; a dimostrare all'opinione che vi sono italiani disposti a combattere per il Negus. Subordinatamente poi, a scagliarsi contro il signor Lavai se impedisse la sedicente spedizione…" (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, lettera senza numero della Regia ambasciata di Parigi a firma Cerruti, Parigi 18 settembre 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
Successivamente giunse dall'Ambasciata italiana di Parigi un telegramma che momentaneamente escludeva azioni degli antifascisti in Etiopia: "…da accurate indagini esperite è risultato che la notizia riguardante la legione dei volontari italiani antifascisti per l'Etiopia non trova conferma in questi ambienti comunisti ed antifascisti in genere. Il progetto venne discusso, ma sembra, poi scartato per ragioni di opportunità…". (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, telespresso n. 214747 del ministero degli Affari Esteri al ministero dell'Africa Italiana, Roma 30 aprile 1936 . Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
In Etiopia la cognizione delle strutture di polizia italiane, circa natura e programmi della missione comunista, ben presto cambia attribuendole un grado di maggiore pericolosità.
Questo avviene a causa del rapporto di Vittorio Longhi che mediava la liberazione del capitano Bertoja, di cui abbiamo già accennato. Il rapporto venne letto dal Ministro delle colonie Lessona e dallo stesso Mussolini e disegna il ritratto di Paul Langrois: "è un individuo di circa 40 anni, statura media, un po' curvo di spalle ma energico nel portamento; capelli, barba e baffi castano scuri, occhi neri, miopi; generalmente parla sfuggendo lo sguardo dell'ascoltatore; dentatura guasta, mancante di parecchi molari; ha una piccola cicatrice alla regione parietale destra, molto vicina all'occhio. Sguardo acceso, quasi da alcolizzato. Ha molta tendenza alle donne. Si fa passare per generale dell'esercito francese e racconta di essere stato in Spagna ed in Russia, ma parla mediocremente la lingua francese e conosce invece molto bene la lingua italiana, che parla con accento toscano. Il capitano, durante la sua prigionia, confidò a Longhi che l'emissario non era affatto uno straniero e neppure un generale, bensì un rinnegato italiano, invasato da idee antifasciste e probabilmente un giornalista. Si fa chiamare Paul Langlois e varie volte espresse a Longhi idee antifasciste, dichiarando altresì di appartenere al partito democratico sociale francese e che l'unico scopo della sua vita era di servire l'antifascismo internazionale. Si presentò al deggiac Mangascià con alcune credenziali munite del sigillo dell'ex negus, e sulle quali era incollata, per riconoscimento, la propria fotografia. L'azione dell'emissario non fu precisamente militare, ma propagandistica. Egli cercò di far riappacificare i deggiac ribelli, invitandoli a riunirsi compatti a combattere le truppe del governo ed aiutarsi vicendevolmente. Inviava delle relazioni nel Sudan e raccontò a Longhi che Karthoum era il centro dal quale si diramava la propaganda in A.O.I. e destinazione delle sue relazioni e delle pellicole cinematografiche da lui prese. A Karthoum i suoi corrispondenti trasmettevano le relazioni a Parigi, ove si troverebbe il centro della propaganda antifascista e antitaliana e dove si sosterrebbero le mire del partito nazionalista etiopico. Disse pure di essere stato a Londra per una settimana, espite dell'ex negus, ma il Longhi notò che l'emissario non conosceva alcuna persona del vecchio governo negussita e ciò gli apparve strano dato che molti seguaci si trovano ancora presso l'ex negus. L'emissario aveva per interprete un eritreo che il Longhi conobbe a Cheren che fu anche ascari del IV Battaglione, certo Emanuel Mangascià Burrù, maestro della scuola Salvago Raggi di Cheren. Altro interprete ai servizi dell'emissario era certo Atò Asseghei di Adua il quale dichiarò a Longhi, che l'emissario era persona nota anche al Duce e che in Spagna aveva prestato segnalati servizi per la causa del comunismo. (ASDMAE, MAIII posiz. 180/42, fase. 138, allegato al foglio n. 146636 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. Riportato in Matteo Dominioni op.cit.)
Da questo momento si moltiplicano le informative di polizia, le segnalazioni sulle azioni del gruppo e il cerchio inesorabilmente si stringe. Sempre il 7 dicembre del 1939 il duca Amedeo d'Aosta (che intanto aveva sostituito Rodolfo Graziani nella carica di vicerè della colonia Etiope) inviò al Ministero dell'Africa Italiana copia delle pubblicazioni dei ribelli e lo informò circa la loro dotazione di mezzi tecnici: "macchine fotografiche, una macchina da scrivere, una stazione ricetrasmittente e un poligrafo". ( ASDMAE, MAIII foglio n. 14764 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, Studi Piacentini).
Il 18 dicembre è la volta del generale Nasi a trasmettere al Ministero un'altro bando del presunto Langrois che era destinato ai capi della regione del Buriè. ( ASDMAE, MAIII foglio n. 145446 di prot. del generale Nasi al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 18 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
A gennaio la polizia dell'Africa Italiana diffonde una foto del presunto Langlois in compagnia di Mangascià e di Mesfin Scibesci. Cominciano a sorgere i primi dubbi sull'identità del Langlois. (Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
L'ispettorato generale del PAI di Addis Abeba, grazie ad un'ulteriore deposizione del Longhi comincia a disegnare un ritratto più preciso del Langlois: "…il così detto Paul Langlois è certamente italiano, e per meglio precisare toscano. Parla assai male il francese; fu in Spagna con i rossi ed in Cina con Ciang Kai Scek. A suo dire fu maggiore dell'esercito italiano e riveste il grado di generale (?) nella legione straniera. Giunse presso il Degiac Negasc il 18 marzo 1939, proveniente da Parigi donde era partito il 1° gennaio 1939 e dove faceva parte del partito democratico italiano. Entrò in A.O.I. dal Sudan Anglo, sfuggendo alla sorveglianza delle nostre truppe. Aveva con se due lettere autografe dell'ex negus, una per il Deggiac Negasc e l'altra per il «popolo del Goggiam» incitanti alla resistenza contro il Governo Italiano…".(ASDMAE, MAIII foglio n. 1258/5599 di prot. del generale Renzo Mambrini al Comando Generale della Pai e ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 25 gennaio 1940. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit).
Successivamente un'altra serie di informative interessò l'attività del gruppo antifascista italiano arrivando anche a dettagliare il viaggio intrapreso dal Langlois per raggiungere il capitano Monnier morente.
"Paul Langlois fu identificato come Paolo De Bargili solamente nel marzo del 1940. Dalla documentazio e dell'archivio del Ministero dell'Interno (casellario politico centrale) la PAI venne a conoscenza del fatto che sin dal 1923 Langlois era stato lo pseudonimo usato da De Bargili. Mai però la PAI e la PS si accorsero che anche il nome De Bargili era la copertura di un'altra identità, quella di Barontini. E' un fatto singolare che nel casellario politico centrale sia stata iscritta una persona inesistente. Un'ipotesi plausibile è che Barontini si sia impossessato dell'identità di un connazionale deceduto o emigrato clandestinamente e sparito all'estero" (Matteo Dominioni, Lo Sfascio dell'Impero, op. cit.)
Nel 1940 cominciò il percorso, attraverso gli stessi territori dell'andata, per il rientro in Europa.
Ma non fu una passeggiata, in quanto il gruppo, scortato da circa venti uomini e in compagnia di preti e dignitari etiopi, fu intercettato da una banda di mercenari e fu costretto a dividersi.
Nel punto di ritrovo concordato Barontini tardò per parecchi giorni fino ad essere considerato morto dai compagni. Fortunatamente, viceversa, il gruppo riuscì a riunirsi a Karthoum e in fine a maggio si trovò al Cairo per essere imbarcato da una nave della Croce Rossa francese per Marsiglia, piuttosto che la Grecia, la Siria o la Turchia in base a quella che era la loro preferenza. Barontini a marsiglia riuscì a scampare all'arresto. Non ebbero la stessa fortuna i compagni che furono imprigionati nel campo di Vernet d'Ariege.
Ma seguiamo il già citato racconto di Cesare Colombo per l'Istituto Gramsci. "Nel maggio del 1940 raggiunsero il fiume Altara girando al largo del lago Tana. Era necessario passare per un passaggio obbligato, molto pericoloso. Assieme ai tre italiani erano dei dignitari etiopi di cui tre ammalati, due preti coopti ed una scorta di circa venti armati. Vennero fermati da una banda di seicento etiopi, che erano stati in parte armati dai fascisti proprio per l'antiguerriglia.
Questi richiesero le armi pesanti e l'oro. lnfatti da tempo circolavano nel paese leggende sui tesori degli emissari del Negus e dei loro aiutanti europei; si parlava di trecento cammelli carichi d'oro.
Ukmar, Rolla e due etiopi, furono messi da una parte; Barontini, i due preti e due etiopi, da un altra.
Fu detto che l'oro era a Badaref, nel Sudan, e alla fine si accordarono che il gruppo di Ukmar e Rolla sarebbe andato a prelevarlo; Barontini e gli altri avrebbero aspettato.
Barontini aveva suggerito il piano, e si era accordato segretamente per fuggire (la tenda sua e degli etiopi che erano con lui si trovava al margine di un bosco) e ritrovarsi in un punto determinato.
La scorta del gruppo di Ukmar, Rolla e gli altri etiopi era stata scelta dai nostri: la maggioranza era costituita da amhara una parte dei quali aveva già combattuto con i patrioti e che al momento buono eliminarono quanti erano contrari a seguire le direttive dei prigionieri; si recarono al luogo convenuto con Barontini e lo aspettarono nove giorni; la banda che aveva fatto prigionieri i nostri nel frattempo si era spostata, erano tutti convinti che Barontini si fosse perduto nella foresta o fosse stato ucciso. Passarono la frontiera e raggiunsero Kartum senza incidenti. Andarono dall'ex-ministro etiope per riprendere i vestiti europei e gli inglesi gli comunicarono: - Anche il vostro amico italiano sarà qui domani. - Infatti Barontini, e gli altri che erano fuggiti con lui grazie alla complicità degli amharici, si erano persi nella foresta ed erano sconfinati nel Sudan, molto più a Sud.
Dopo otto o dieci giorni, alla fine del maggio '40, giunsero al Cairo. Chiesero di essere imbarcati per la Grecia o la Siria o la Turchia. Furono invece imbarcati in un piroscafo francese della Croce Rossa adibito al trasporto di rifugiati francesi ed olandesi. Barontini riuscì a sbarcare inosservato.
Rolla e Ukmar il giorno dopo l'arrivo a Parigi furono arrestati e poi internati nei campo di Vernet d ‘Ariége. Si era ai primi del giugno 1940. Qualche giorno dopo Parigi cadeva nelle mani dei nazisti.
(Per tutta la vicenda del rientro in Europa vedasi anche l'articolo citato su Rinascita, "B.Anatra, Partigiano sul lago Tana" e "E. Barontini, V. Marchi, "Dario").
Non si pensi che i Nostri siano stati ricoperti di onori dai compagni di partito. Lo stesso Barontini fu tenuto in isolamento, come in quarantena, intanto che il partito sondava qualità politica e limpidezza delle sue precedenti azioni. La logica della clandestinità non ammetteva deroghe e Barontini era stato per circa 18 mesi in rapporto con l'intelligence britannica, cosa che suscitava più di un sospetto. (Vedasi sempre il libro della figlia di Barontini "Dario").
Sempre Del Boca riferisce nel mai superato Gli italiani in Africa Orientale che questi non furono gli unici italiani ad aver militato nella resistenza etiope. Il grande storico dell'Etiopia Richard Pankhurst gli fece pervenire una piccola nota frutto di una ricerca nella quale figurano tra i combattenti etiopi il siciliano Saverio Sbriglio, che disertò per prestare soccorso quale infermiere presso la formazione di Abebè Aregai, e Alfonso P. che disertò per raggiungere le forze di Negasc Bezabè nel Goggiam. Alfonso P. finirà i suoi giorni internato per errore nel 1941, dagli inglesi, nel campo di concentramento di Dire Dawa e verrà pugnalato al cuore da alcuni fascisti. Inoltre nel 1941, alla data della liberazione dell'Etiopia, saranno centinaia, forse qualche migliaio, gli "insabbiati". Ovvero gli italiani che avevano disertato ed erano spariti nell'immenso territorio del paese, facendosi una famiglia e conducendo un'esistenza spesso clandestina [...]
Gaspare Sciortino, I comunisti e i guerriglieri del Negus. Un episodio della resistenza antifascista in Etiopia, 1938-39, www.resistenze.org, aprile 2012

La tesi è il frutto di una ricerca svolta in questi mesi insieme a docenti e studenti delle scuole superiori modenesi. La tesi è articolata in sei capitoli. Nei primi 4 capitoli, si analizza la storia coloniale italiana, gli studi etno-antropologici e il razzismo nei confronti degli africani. Il colonialismo italiano è una delle pagine più nascoste della storia italiana e la memoria coloniale italiana è tema storiografico poco dibattuto. Il colonialismo italiano veniva considerato meno violento, meno razzista rispetto a quello delle grandi potenze. È diventato un tema studiato da qualche anno, il merito dell’inizio di una nuova chiave di lettura del colonialismo va allo storico Angelo Del Boca. Lo storico, insieme da altri studiosi come Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Valeria Deplano, Alessandro Pes, Barbara Sòrgoni, Barbara Spadaro, hanno iniziato a mettere in luce alcuni eventi e pratiche coloniali. Gli studiosi hanno dimostrato che il colonialismo italiano non è meno violento o meno razzista rispetto a tutti i colonialismi europei. Gli ultimi due capitoli si concentrano sulla ricerca svolta con i docenti e gli studenti, attraverso delle interviste, nel capitolo dedicato ai docenti, si cerca di analizzare se viene insegnata la storia coloniale nelle scuole superiori modenesi e in che modo. Sono stati intervistati docenti di diverse scuole di Modena e provincia, istituti di tutte le categorie: professionali, licei e tecnici. La storia coloniale è la grande assente, nei manuali le viene dedicato poco spazio. Non si parla quasi mai delle violenze, dell’uso dei gas, violenza di genere. Molti dei docenti intervistati, hanno però tematizzato alcuni argomenti e sono stati approfonditi in classe usando materiale oltre all’uso del libro di testo. Il sesto capitolo invece è sulla memoria coloniale nelle nuove generazioni, le interviste sono state fatte con studenti degli istituti professionali, licei e tecnici di Modena. Alcuni studenti sono figli di immigrati e con loro si è parlato, quando è stato possibile, della storia coloniale dei loro paesi di origini. L'obiettivo era quello di analizzare com’è la memoria coloniale nelle nuove generazioni, come percepiscono la storia coloniale e alcune tematiche legate ad essa come la violenza sulle popolazioni colonizzate, violenza sulle donne nelle colonie, il razzismo. La storia coloniale è stata trasmessa dalla scuola oppure dalla famiglia? In che modo? Gli studenti figli di genitori immigrati, si sentono far parte di tutte e due le patrie, hanno raccontato la storia coloniale dei paesi di origini, cosa si ricordano, come la percepiscono, quali sono i residui del colonialismo su questi paesi. Raccontando la loro memoria, gli studenti vivono sulla propria pelle l’eredità razzista del passato, simile a quella vissuta dai loro antenati. Sentono l’importanza di studiare la storia coloniale dei paesi di origini per conoscere quello che hanno dovuto subire i loro avi e perché credono che studiando il passato si possono evitare di rifare gli errori del passato. Anche gli studenti figli di genitori italiani hanno condiviso le loro memorie, fotografie risalenti dall’epoca coloniale. Anche loro sono sensibili a questo tema e credono nella sua importanza di conoscere il passato e affrontare alcuni temi nelle scuole per evitare di ricadere in errori fatti in passato, e che continuano a persistere nel mondo.
Ijjou Berdaouz, La storia coloniale italiana: memoria e insegnamento nelle scuole superiori modenesi, Riassunto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2020